"Buon europeo". Ovvero: Coosa avrebbe pensato Nietzsche dell'Unione europea

Nietzsche chiama “𝗯𝘂𝗼𝗻 𝗲𝘂𝗿𝗼𝗽𝗲𝗼” chi sa abitare l’Europa come spazio di metamorfosi e non come museo delle identità. Non l’eurocrate, non il devoto del mercato unico, ma un “𝗮𝗿𝗶𝘀𝘁𝗼𝗰𝗿𝗮𝘁𝗶𝗰𝗼 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗼 𝘀𝗽𝗶𝗿𝗶𝘁𝗼”: plurilingue, meticcio per cultura, capace di inventare valori e di reggere il peso della distanza. Con questa lente l’Unione Europea appare insieme 𝗽𝗿𝗼𝗺𝗲𝘀𝘀𝗮 e 𝗽𝗲𝗿𝗶𝗰𝗼𝗹𝗼. Promessa, perché erode i nazionalismi corti, apre circolazioni di persone e saperi, prepara la scena di una “𝗴𝗿𝗮𝗻𝗱𝗲 𝗽𝗼𝗹𝗶𝘁𝗶𝗰𝗮” capace di decisioni continentali. Pericolo, perché tende a rovesciare la 𝗽𝗼𝗹𝗶𝘁𝗶𝗰𝗮 𝗶𝗻 𝗮𝗺𝗺𝗶𝗻𝗶𝘀𝘁𝗿𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲, la 𝗳𝗼𝗿𝗺𝗮 𝗶𝗻 𝗽𝗿𝗼𝗰𝗲𝗱𝘂𝗿𝗮, l’𝗮𝗴𝗼𝗻 𝗶𝗻 𝗿𝗲𝘁𝗼𝗿𝗶𝗰𝗮 𝗱𝗲𝗶 𝗱𝗶𝗿𝗶𝘁𝘁𝗶 𝘀𝗲𝗻𝘇𝗮 𝗳𝗼𝗿𝘇𝗮. L’Europa di Nietzsche non è un’omelette morale per tutti i gusti: è la possibilità di un 𝗼𝗿𝗱𝗶𝗻𝗲 𝗰𝗵𝗲 𝘀𝗲𝗹𝗲𝘇𝗶𝗼𝗻𝗮, 𝗳𝗼𝗿𝗺𝗮, 𝗽𝗿𝗲𝘁𝗲𝗻𝗱𝗲. Qui si apre il primo giudizio: una costruzione che moltiplica regole ma esita a decidere consegna il campo al 𝗿𝗶𝘀𝗲𝗻𝘁𝗶𝗺𝗲𝗻𝘁𝗼 che dice di voler curare.

Nietzsche detesta il nazionalismo e l’antisemitismo, ma non accetta l’𝘂𝗺𝗮𝗻𝗶𝘁𝗮𝗿𝗶𝘀𝗺𝗼 𝗽𝗮𝘁𝗲𝗿𝗻𝗮𝗹𝗶𝘀𝘁𝗮 dell’egualitarismo di maniera. La 𝗴𝗲𝗻𝗲𝗮𝗹𝗼𝗴𝗶𝗮 che proporrebbe all’UE è spietata: molta della nostra 𝗿𝗲𝘁𝗼𝗿𝗶𝗰𝗮 𝗱𝗲𝗶 𝘃𝗮𝗹𝗼𝗿𝗶 è 𝗺𝗼𝗿𝗮𝗹𝗲 𝗰𝗿𝗶𝘀𝘁𝗶𝗮𝗻𝗮 𝘀𝗲𝗰𝗼𝗹𝗮𝗿𝗶𝘇𝘇𝗮𝘁𝗮. Non per demolirla, ma per 𝘁𝗿𝗮𝘀𝘃𝗮𝗹𝘂𝘁𝗮𝗿𝗹𝗮: dalla 𝗰𝗼𝗺𝗽𝗮𝘀𝘀𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗰𝗵𝗲 𝗽𝗮𝗿𝗮𝗹𝗶𝘇𝘇𝗮 alla 𝗰𝘂𝗿𝗮 𝗰𝗵𝗲 𝗿𝗲𝘀𝗽𝗼𝗻𝘀𝗮𝗯𝗶𝗹𝗶𝘇𝘇𝗮; dalla 𝘁𝘂𝘁𝗲𝗹𝗮 𝗶𝗻𝗱𝗶𝘀𝗰𝗿𝗶𝗺𝗶𝗻𝗮𝘁𝗮 alla 𝗱𝗶𝘀𝗰𝗶𝗽𝗹𝗶𝗻𝗮 𝗱𝗲𝗹𝗹’𝗲𝗰𝗰𝗲𝗹𝗹𝗲𝗻𝘇𝗮; dall’𝗶𝗻𝗰𝗹𝘂𝘀𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗰𝗼𝗺𝗲 𝗽𝗮𝗿𝗼𝗹𝗮 𝗱’𝗼𝗿𝗱𝗶𝗻𝗲 all’𝗶𝗻𝗰𝗹𝘂𝘀𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗰𝗼𝗺𝗲 𝗳𝗼𝗿𝗺𝗮 𝗱𝗶 𝘃𝗶𝘁𝗮 𝗲𝘀𝗶𝗴𝗲𝗻𝘁𝗲. Il “buon europeo” non confonde 𝗮𝗰𝗰𝗼𝗴𝗹𝗶𝗲𝗻𝘇𝗮 𝗰𝗼𝗻 𝗿𝗶𝗻𝘂𝗻𝗰𝗶𝗮 𝗮𝗴𝗹𝗶 𝘀𝘁𝗮𝗻𝗱𝗮𝗿𝗱, né 𝗽𝗹𝘂𝗿𝗮𝗹𝗶𝘀𝗺𝗼 𝗰𝗼𝗻 𝗿𝗲𝗹𝗮𝘁𝗶𝘃𝗶𝘀𝗺𝗼 𝗺𝗼𝗹𝗹𝗲. Chiede 𝗰𝗿𝗶𝘁𝗲𝗿𝗶, 𝗴𝗲𝗿𝗮𝗿𝗰𝗵𝗶𝗲 𝗱𝗶 𝗳𝗶𝗻𝗶, 𝘀𝗲𝗹𝗲𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗱𝗶 𝗽𝗿𝗶𝗼𝗿𝗶𝘁𝗮̀. Senza questo lavoro di forma, la proclamazione dei valori diventa 𝗮𝗻𝗲𝘀𝘁𝗲𝘀𝗶𝗮.

Nietzsche non predica pacifismi ma 𝗳𝗼𝗿𝗺𝗮 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗳𝗼𝗿𝘇𝗮. La 𝗽𝗮𝗰𝗲 ha senso se è 𝗲𝘀𝗶𝘁𝗼 𝗱𝗶 𝘃𝗼𝗹𝗼𝗻𝘁𝗮̀, non di 𝘀𝘁𝗮𝗻𝗰𝗵𝗲𝘇𝘇𝗮. Trasposto al presente, il verdetto è semplice: un’Europa grande economia e poca 𝘃𝗼𝗹𝗼𝗻𝘁𝗮̀ 𝗽𝗼𝗹𝗶𝘁𝗶𝗰𝗮 è destinata a parlare molto e contare poco. 𝗗𝗶𝗳𝗲𝘀𝗮 𝗰𝗼𝗺𝘂𝗻𝗲, 𝗮𝘂𝘁𝗼𝗻𝗼𝗺𝗶𝗮 𝘀𝘁𝗿𝗮𝘁𝗲𝗴𝗶𝗰𝗮 su energia e tecnologie, 𝗰𝗮𝗽𝗮𝗰𝗶𝘁𝗮̀ 𝗱𝗶 𝗱𝗲𝗰𝗶𝘀𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗿𝗮𝗽𝗶𝗱𝗮: non sono capitoli tecnici, ma la prova se l’Unione riesce a passare dalla 𝗴𝗲𝘀𝘁𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗱𝗲𝗹 𝗴𝗶𝗮̀ 𝗱𝗮𝘁𝗼 alla 𝗽𝗿𝗼𝗱𝘂𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗱𝗶 𝗿𝗲𝗮𝗹𝘁𝗮̀. L’alternativa è nota: l’𝘂𝗹𝘁𝗶𝗺𝗼 𝘂𝗼𝗺𝗼 𝘀𝗼𝗱𝗱𝗶𝘀𝗳𝗮𝘁𝘁𝗼, il continente come 𝗰𝗼𝗻𝗱𝗼𝗺𝗶𝗻𝗶𝗼 𝗮𝗺𝗺𝗶𝗻𝗶𝘀𝘁𝗿𝗮𝘁𝗼.

Per Nietzsche la 𝗰𝘂𝗹𝘁𝘂𝗿𝗮 non è decorazione, è 𝗽𝗼𝘁𝗲𝗻𝘇𝗮 𝗳𝗼𝗿𝗺𝗮𝘁𝗶𝘃𝗮. L’UE ama la “diversità”, ma spesso la addomestica in festival. Il buon europeo cerca invece la 𝗳𝗿𝗶𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗰𝗵𝗲 𝗴𝗲𝗻𝗲𝗿𝗮 𝗰𝗿𝗲𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲: mette in prova i canoni, intreccia scienza e arti, assume il 𝗿𝗶𝘀𝗰𝗵𝗶𝗼 𝗱𝗲𝗹𝗹’𝗲𝗿𝗿𝗼𝗿𝗲 e lo 𝗽𝗮𝗴𝗮. Non chiede alla politica di garantire identità, chiede di costruire condizioni per cui 𝗱𝗶𝗳𝗳𝗲𝗿𝗲𝗻𝘇𝗲 𝗳𝗼𝗿𝘁𝗶 possano competere senza distruggersi. È qui che l’Europa o 𝗱𝗶𝘃𝗲𝗻𝘁𝗮 𝗼𝗳𝗳𝗶𝗰𝗶𝗻𝗮 𝗼 𝗿𝗲𝘀𝘁𝗮 𝘃𝗲𝘁𝗿𝗶𝗻𝗮.

Il buon europeo diffida delle 𝘃𝗲𝗿𝗶𝘁𝗮̀ 𝗿𝗶𝘃𝗲𝗹𝗮𝘁𝗲 e del 𝗰𝗼𝗻𝘀𝗲𝗻𝘀𝗼 𝗰𝗼𝗺𝗲 𝗳𝗶𝗻𝗲 𝗶𝗻 𝘀𝗲́; vuole processi trasparenti, ma sa che alla fine occorre 𝘂𝗻 𝗮𝘁𝘁𝗼. L’Unione che rinvia in eterno, che si rifugia nel 𝘃𝗲𝘁𝗼, che confonde 𝗰𝗼𝗻𝘁𝗿𝗼𝗹𝗹𝗼 𝗰𝗼𝗻 𝗿𝗲𝘀𝗽𝗼𝗻𝘀𝗮𝗯𝗶𝗹𝗶𝘁𝗮̀, non è “più democratica”: è 𝗽𝗶𝘂̀ 𝗶𝗿𝗿𝗲𝘀𝗽𝗼𝗻𝘀𝗮𝗯𝗶𝗹𝗲. L’atto non elimina il conflitto, lo ordina. Senza atto, è il conflitto a travolgere l’ordine.

A Nietzsche l’UE piacerebbe quando 𝘀𝗰𝗶𝗼𝗴𝗹𝗶𝗲 𝗶 𝗻𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗮𝗹𝗶𝘀𝗺𝗶, 𝗿𝗼𝗺𝗽𝗲 𝗶 𝗽𝗿𝗼𝘃𝗶𝗻𝗰𝗶𝗮𝗹𝗶𝘀𝗺𝗶, 𝗮𝗽𝗿𝗲 𝗹’𝗮𝗴𝗼𝗻 𝗰𝗿𝗲𝗮𝘁𝗶𝘃𝗼. La giudicherebbe inadeguata quando 𝘀𝗶 𝗳𝗮 𝗰𝗮𝘁𝗲𝗰𝗵𝗶𝘀𝗺𝗼 𝗱𝗲𝗶 𝘃𝗮𝗹𝗼𝗿𝗶, quando 𝘀𝗼𝘀𝘁𝗶𝘁𝘂𝗶𝘀𝗰𝗲 𝗹𝗮 𝗽𝗼𝗹𝗶𝘁𝗶𝗰𝗮 𝗰𝗼𝗻 𝗶𝗹 𝗽𝗿𝗼𝗰𝗲𝗱𝘂𝗿𝗮𝗹𝗶𝘀𝗺𝗼, quando 𝗽𝗮𝗿𝗹𝗮 𝗱𝗶 𝗽𝗹𝘂𝗿𝗮𝗹𝗶𝘀𝗺𝗼 𝗽𝗲𝗿 𝗻𝗼𝗻 𝘀𝗰𝗲𝗴𝗹𝗶𝗲𝗿𝗲. Le chiederebbe questo: 𝗽𝗮𝘀𝘀𝗮𝗿𝗲 𝗱𝗮𝗹𝗹’𝗘𝘂𝗿𝗼𝗽𝗮 𝗰𝗼𝗺𝗲 𝗴𝗮𝗿𝗮𝗻𝘇𝗶𝗮 𝗮𝗹𝗹’𝗘𝘂𝗿𝗼𝗽𝗮 𝗰𝗼𝗺𝗲 𝗳𝗼𝗿𝗺𝗮, 𝗱𝗮𝗹𝗹𝗮 𝗰𝗲𝗹𝗲𝗯𝗿𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗱𝗶𝘃𝗲𝗿𝘀𝗶𝘁𝗮̀ 𝗮𝗹𝗹𝗮 𝘀𝘂𝗮 𝗱𝗶𝘀𝗰𝗶𝗽𝗹𝗶𝗻𝗮, 𝗱𝗮𝗹𝗹’𝗮𝗺𝗺𝗶𝗻𝗶𝘀𝘁𝗿𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗮𝗹𝗹’𝗶𝗻𝗶𝘇𝗶𝗮𝘁𝗶𝘃𝗮. Se resta 𝗮𝗻𝗲𝘀𝘁𝗲𝘀𝗶𝗰𝗼, la chiamerebbe 𝗱𝗲𝗰𝗮𝗱𝗲𝗻𝘇𝗮. Se diventa 𝘀𝗰𝘂𝗼𝗹𝗮 𝗱𝗶 𝗿𝗲𝘀𝗽𝗼𝗻𝘀𝗮𝗯𝗶𝗹𝗶𝘁𝗮̀ 𝗲 𝗱𝗶 𝘀𝘁𝗶𝗹𝗲 — capace di generare davvero “𝗯𝘂𝗼𝗻𝗶 𝗲𝘂𝗿𝗼𝗽𝗲𝗶” — la chiamerebbe 𝗶𝗻𝗶𝘇𝗶𝗼.

— 𝗘𝗿𝗮𝗰𝗹𝗶𝘁𝗼 𝗱𝗶 𝗥𝗶𝗮𝗹𝘁𝗼