Dazi, prezzi e consenso: Come la Tariff economy sta logorando l'amministrazione Trump
Nel secondo mandato di Donald Trump la leva dei dazi è tornata al centro della politica economica americana. Nel giro di pochi mesi l’aliquota media applicata sulle importazioni è stata portata su livelli che gli Stati Uniti non vedevano da decenni, con tariffe forti su acciaio, auto, componenti elettronici e una lunga lista di beni di consumo. È una scelta strutturale: non più dazi mirati come strumento negoziale, ma protezionismo sistematico come marca politica.
Il meccanismo economico è lineare. Un dazio è una tassa sulle importazioni. Se colpisce beni intermedi (acciaio, semiconduttori, fertilizzanti), aumenta i costi delle imprese che usano quei prodotti; se colpisce beni finali (elettrodomestici, abbigliamento, alimentari), il rincaro arriva direttamente sullo scontrino. In entrambi i casi, una parte significativa dell’onere ricade su imprese e famiglie domestiche. Gli studi prodotti finora convergono su un punto: la quasi totalità del carico dei dazi introdotti negli ultimi anni è stata assorbita dai soggetti interni all’economia americana, non dai partner esteri.
Sul lato dei numeri, l’inflazione ufficiale è tornata stabilmente sopra il target del 2%. La dinamica dei prezzi racconta un quadro misto: alcune voci (energia, ad esempio) hanno rallentato rispetto ai picchi post-pandemia; altre – alimentari, beni durevoli importati, servizi – restano su livelli elevati. La cosa che conta per la politica, però, non è solo l’indice: è l’inflazione percepita, quella che le famiglie misurano nel carrello e nel saldo del conto corrente a fine mese. Su questo fronte, il messaggio che arriva dai sondaggi è chiaro: per una larga maggioranza degli americani “i prezzi stanno ancora correndo”, a prescindere dalle sfumature tra 2,8% o 3,2% nei comunicati statistici.
È qui che la politica dei dazi esercita il suo effetto più visibile. Colpisce beni che entrano nella vita quotidiana (cibo trasformato, elettrodomestici, elettronica di consumo) o nei costi “a monte” delle imprese, che poi ribaltano i rincari a valle. Il risultato è un’inflazione che può anche essere tecnicamente in calo rispetto ai massimi, ma rimane “alta abbastanza” da tenere sotto pressione il potere d’acquisto, soprattutto dei redditi medio-bassi. I dazi sono, di fatto, una tassa regressiva: chi ha meno margine nel proprio budget risente di più di ogni euro – o dollaro – in più sullo scontrino.
Sul piano politico, il nesso sta entrando nella percezione pubblica. Gli ultimi rilevamenti mostrano un presidente in territorio negativo sulla gestione dell’economia e, in particolare, dell’inflazione. È una dinamica tipica: quando i prezzi salgono o restano elevati, l’elettore medio tende ad attribuire la responsabilità al governo in carica, indipendentemente dalla complessità delle cause. In questo caso, però, il legame è più diretto del solito, perché la narrativa trumpiana sui dazi è stata fortemente personalizzata: “tariffe” e “guerra dei dazi” sono associate, nel discorso pubblico, direttamente al presidente.
La promessa iniziale era relativamente semplice: far pagare “gli altri” – la Cina in primis –, riportare produzione e occupazione in patria, usare il gettito dei dazi per alleggerire la pressione fiscale interna. I primi bilanci, tuttavia, raccontano una realtà più sfumata. Il gettito tariffario è sì aumentato in modo significativo, ma pesa comunque poco sul totale delle entrate federali; abbastanza per finanziare misure mirate, non abbastanza per rimpiazzare su larga scala l’imposta sul reddito. Soprattutto, la divisione del costo è meno favorevole di quanto promesso: i partner esteri hanno in parte ridiretto le esportazioni verso altri mercati, mentre per consumatori e imprese americane il dazio resta un sovrapprezzo difficilmente evitabile.
Nel frattempo, alcuni segnali di logoramento politico sono già visibili. In diverse consultazioni locali e nei sondaggi nazionali, il tema dominante non è la geopolitica del commercio, ma la sostenibilità del costo della vita: affitti, mutui, spesa alimentare, sanità. Quando l’elettore deve tagliare su questi capitoli, la distinzione tra inflazione “core”, “headline” o “di base” scompare; resta la sensazione che la propria busta paga non tenga il passo. In questo contesto, i dazi finiscono sotto accusa come concausa diretta o indiretta dei rincari.
Di fronte a questo quadro, la Casa Bianca ha iniziato a correggere la rotta su alcuni fronti: taglio o sospensione di tariffe su specifici prodotti alimentari, aperture negoziali con Paesi fornitori di materie prime agricole e fertilizzanti, tentativi di rassicurare l’elettorato sui costi della strategia protezionista. È però una correzione parziale: i dazi “identitari”, quelli su acciaio, auto, prodotti tecnologici, restano al loro posto, perché sono parte integrante della narrazione di forza dell’amministrazione.
Resta una domanda di fondo, che riguarda anche il dibattito economico più generale: quanto protezionismo è compatibile con la stabilità dei prezzi in un’economia avanzata e altamente integrata nelle catene globali del valore? In teoria, un aumento forte dei dazi può avere effetti restrittivi sulla domanda e quindi, nel medio periodo, contenere l’inflazione. Nella pratica, però, nel breve periodo prevale la spinta sui prezzi legata all’aumento dei costi, e l’elettore difficilmente ragiona in orizzonti pluriennali quando vede salire il conto del supermercato.
In sintesi, la tariff economy trumpiana sta producendo tre effetti concatenati. Primo: un contributo non trascurabile alla dinamica dei prezzi, in particolare nei segmenti che contano di più per la vita quotidiana. Secondo: una redistribuzione silenziosa di reddito, perché la “tassa dazio” pesa proporzionalmente di più sulle fasce di reddito medio-basse. Terzo: un’erosione del consenso politico, che colpisce proprio il dossier – l’economia reale – su cui l’amministrazione aveva chiesto un secondo mandato di fiducia. È il classico caso in cui uno strumento nato come leva identitaria finisce per presentare il conto sul terreno più concreto e meno ideologico di tutti: il potere d’acquisto.
— 𝐒𝐚𝐥𝐝𝐨 𝐏𝐫𝐢𝐦𝐚𝐫𝐢𝐨