Debito e colpa - La contabilità della coscienza
In Nietzsche, la morale nasce da un libro contabile
In Nietzsche, la morale non cade dal cielo: si scrive in un registro. Schuld, parola che significa insieme debito e colpa, non è un concetto morale originario, ma una formula economica. L’uomo, prima di diventare “coscienza”, è allevato come animale della promessa: un debitore che deve rendere affidabile il proprio impegno. La colpa nasce quando la promessa fallisce e il creditore — prima il clan, poi lo Stato, infine Dio — chiede risarcimento in dolore: la punizione diventa pagamento e la coscienza contabilità dell’offesa.
Promettere, qui, è una tecnica sul tempo. La specie viene forgiata fino a produrre «un animale che può promettere» (Genealogia della morale, II). Due poteri ne fanno il telaio: oblio attivo, che ripulisce il presente, e memoria plasmata, che trattiene il vincolo scelto. All’inizio si incide col dolore (II,3); poi nasce l’individuo “sovrano” (II,2), capace di promettere senza polizia interiore perché dispone di una lunga volontà. Responsabilità non è pagare debiti infiniti: è assumere forma e mantenerla. La promessa non chiude i conti, apre futuro.
Dal debito materiale si passa alla colpa interiore (II,4–8). Il creditore divino eredita la logica del patto e la spinge all’infinito: nessuno può estinguere quel debito. La cattiva coscienza interiorizza l’obbligo, il sacerdote ascetico ne amministra la partita doppia; la promessa si deforma in penitenza. L’uscita proposta da Nietzsche non è l’assoluzione, ma uno spostamento di registro: dal pagamento all’opera — dove l’impegno diventa forma, non espiazione.
Il meccanismo si radicalizza nella figura del debitore che non può restituire: più potente è il Dio, più cresce il sentimento di debito; la punizione non estingue, prolunga; il dolore non paga, capitalizza. La cattiva coscienza scopre una banca inesauribile nel soggetto: ogni affetto viene iscritto a bilancio, ogni gioia tassata come distrazione, ogni desiderio convertito in interessi di colpa. Il sacerdote ascetico amministra questa partita doppia: trasforma la sofferenza in moneta, la rinuncia in garanzia, il risentimento in interesse composto. La Schuld non è più un vincolo tra parti che si scioglie, ma un cappio metafisico: una promessa rovesciata, perché promettere significa qui solo espiare. La via d’uscita nietzscheana non è l’assoluzione, è lo spostamento di registro: dal pagamento all’opera.
Qui l’antropologia di Marcel Mauss offre una sponda concreta. Nel Saggio sul dono (1925) il legame nasce dal circuito «donare, ricevere, ricambiare»: non gratuità ingenua, ma reciprocità che costruisce credito sociale. Il ritorno non è colpa, è relazione. Nelle società del potlatch la rivalità passa per la generosità e produce alleanze, non tribunali interiori. Accostata a Nietzsche, la lezione è netta: non esiste comunità senza obblighi; la questione è quale tipo di obbligo istituiamo — punitivo o generativo.
Da qui la distinzione decisiva sulla disciplina. C’è una disciplina del penitente — contabilità della Schuld, paura travestita da virtù, libro mastro di rinunce — e una dell’artefice: selezione, ritmo, allenamento degli affetti. La prima consuma vita per pagare; la seconda investe vita per formare. Con Mauss si aggiunge una terza via operativa: promessa-come-scambio, dove l’impegno crea legame e il legame crea mondo.
Il moderno non ha abolito il debito: lo ha secolarizzato. Dalla finanza alla psiche proliferano teologie del “dover essere”. Qui l’etica del dono è un correttivo: trasformare debiti morti in circuiti vivi di reciprocità — restituzioni creative (opere, servizi, cura) al posto della pena. La domanda che resta è la più semplice e la più politica: chi riscuote, e in nome di quale paura?
Chi riscuote? Ogni epoca ha i suoi esattori. Il sacerdote ascetico quando la colpa è teologica; il giudice e il burocrate quando il debito è giuridico; la banca e le agenzie di rating quando è finanziario; gli algoritmi delle piattaforme quando è attenzione; il “terapeuta morale” quando è prestazione di autenticità; infine noi stessi, come cattiva coscienza, quando il tribunale si è installato dentro. Gli strumenti cambiano, il gesto è lo stesso: convertire il vivo in pagamento.
In nome di quale paura? Della dannazione (senso), del caos (ordine), dell’insolvenza (sussistenza), dell’esclusione (appartenenza), della perdita di faccia (prestigio), della disintegrazione dell’io (identità). Più la paura è indeterminata, più l’esattore può allungare il debito: il “ti manca sempre qualcosa” è l’interesse composto della cattiva coscienza.
Come si riconosce la legittimità della riscossione? Da quattro prove semplici. 1) Finitudine: il debito ha un termine chiaro o tende all’infinito? 2) Convertibilità: è saldabile con opere verificabili (beni comuni, servizio, cura) o solo con dolore e rinuncia? 3) Simmetria del rischio: chi riscuote espone qualcosa di suo o gioca a somma zero? 4) Effetto sugli affetti: aumenta risentimento e paura, o capacità di promettere e lucidità del gesto? Se fallisce queste prove, è potere sacerdotale travestito.
La libertà nietzscheana non è l’assenza di debiti: è la capacità di rifondarli come promesse che aumentano potenza. Una promessa riuscita non salda un passato, genera durata; misura la forza con un segno sobrio: poter promettere ancora — come stile — e ricambiare — come dono.
— 𝐄𝐫𝐚𝐜𝐥𝐢𝐭𝐨 𝐝𝐢 𝐑𝐢𝐚𝐥𝐭𝐨