Due popoli, due stati, due guerre
𝐌𝐚𝐧𝐮𝐚𝐥𝐞 𝐩𝐫𝐚𝐭𝐢𝐜𝐨 𝐝𝐢 𝐝𝐢𝐬𝐭𝐨𝐩𝐢𝐚 (𝐜𝐨𝐧 𝐜𝐚𝐮𝐭𝐞𝐥𝐚)
Finalmente, dicono, due popoli due Stati. Cerimonie in alta definizione, droni che riprendono il taglio del nastro lungo il nuovo confine: un filo di acciaio lucidato, fotogenico. Due inni, due alfabeti — ebraico e arabo — sovrapposti ai sottotitoli; una stella di David e il triangolo rosso della bandiera palestinese scorrono nello stesso frame. In basso, le targhe: “Linea di Pace 1.0 – Progetto cofinanziato da sponsor, donatori, algoritmi”. Sorrisi calibrati, traduzioni simultanee. Subito dopo, la sirena di prova. Poi quella vera.
Nel primo mese della nuova era, le mappe si aggiornano ogni notte: il confine non è una linea, è un software che scarichi all’alba. Le app di viaggio suggeriscono percorsi alternativi attorno ai crateri; le famiglie impostano il geofencing dei bambini per non oltrepassare il “margine caldo”. Le scuole riaprono a giorni alterni: lunedì lezioni, martedì rifugi, mercoledì streaming. Educazione civica: come compilare il modulo per la tregua condominiale.
Il Ministero della Riconciliazione Obbligatoria inaugura la campagna “Due verità e una menzogna”. Nelle aule mostrano shalom e salaam come cugine di radice — Š‑L‑M — e poi litigano sulla punteggiatura. Funziona così: ogni sera, i due portavoce leggono lo stesso fatto con punteggiatura diversa. Si chiama coerenza narrativa. In mezzo, una task force di linguisti coraggiosi prova a tradurre la parola “lutto” senza suonare di parte. Falliscono con garbo. Un think tank propone di standardizzare il pianto: 90 secondi a famiglia, per equità.
I valichi sono opere d’arte contemporanea: corridoi di vetro temperato dove scorrono, in entrambe le direzioni, aiuti e accuse. Doganieri con bodycam e sorriso di gomma: “Benvenuti nella normalità monitorata”. Ogni camion ha un nome, una rotta, un karma. Ogni uomo ha un QR‑code: status, appartenenza, possibilità. Gli ospedali tengono in magazzino i kit “dopo‑esplosione”: garze, sedativi, modulistica. Venerdì al tramonto e al richiamo della preghiera, le code si fermano un istante: Shabbat e Jumuʿah parlano lingue sorelle e nessuno ha tempo di ascoltare.
La pace è un abbonamento stagionale: primavera di trattative, estate di conferenze, autunno di revisioni, inverno di rimpasti. La chiamano governance. Nella lingua comune: una catena di no in giacca e cravatta. Droni “sentinella” arano il cielo in geometrie rassicuranti; a volte si distraggono e ricordano a tutti dove siamo. I comunicati parlano di “episodi”, come se gli episodi non fate serie.
È tutto perfettamente simmetrico, e proprio qui sta la nuova asimmetria. Due bandiere, due inni, due tribunali, due servizi di sicurezza; due lezioni di storia per ogni data; due musei della memoria — Yad Vashem da una parte; chiavi, mappe e archivi di villaggi scomparsi dall’altra — in cui il visitatore esce più convinto di prima. Le nonne raccontano la stessa scena con dettagli opposti: la candela di Shabbat sul tavolo e la chiave di Jaffa sul chiodo; il barattolo di zucchero sulla mensola, lo sparo, la porta che non c’era. Le nipoti ascoltano con le cuffie noise‑cancelling.
Nel quartiere modello “Gemelli” hanno dipinto due strisce pedonali identiche a tre metri di distanza: qui i bambini imparano che la traversata è un atto politico. Zainetti con kippòt ricamate e motivi di tatreez; keffiyeh e tallit piegati negli armadietti. Le madri spingono passeggini antischeggia; i padri discutono di diritto internazionale al bar, tra un blackout e l’altro. Un imprenditore visionario lancia la startup della ricostruzione: “Mattoni etici™ – si montano in 12 minuti, garanzia su tre tregue”. Seduce i fondi con una slide che dice: resilienza.
A ogni fine mese, il Comitato Congiunto pubblica l’Indice di Normalità. È fatto di numeri eleganti: autobus circolanti, litri d’acqua, ore di elettricità, incidenti “statisticamente fisiologici”. Sotto, minuscolo, un asterisco: “Non include i morti tardivi né quelli fuori inquadratura”. Le città posano nuove pietre d’inciampo e targhe dei villaggi scomparsi: memoria diffusa, contraddittoria. Tutti concordano che l’indice è un passo avanti. Nessuno ricorda com’era la normalità senza indice.
Le ambasciate fanno a gara a chi costruisce prima il Centro per il Dialogo Permanente, un edificio con pareti di vetro e una sola stanza senza porte. Inaugurazione con buffet bilanciato: 50% hummus, 50% gefilte fish. Foto dall’alto, luce giusta, hashtag pronti. Il giorno dopo, un graffito sul muro esterno: “La pace non è un open bar”. Il direttore del Centro sorride e twitta: vandalismo, dicono, dialogico.
Nel frattempo, l’economia fiorisce come un cactus. Appaltatori, assicuratori, consulenti della compliance, psicologi dell’emergenza, piloti di droni disoccupati riciclati in giardinieri verticali. I vecchi che ricordano le pause senza app ricordano male: “c’era più silenzio”, dicono. I giovani ridono: il silenzio non si misura, non si monetizza.
Ogni tanto, succede qualcosa che scavalca il recinto degli schermi. Una bambina corre oltre la linea di vernice perché ha visto un gatto. Due soldati—uniformi diverse, stessa età—alzano le armi, poi le abbassano. Il gatto attraversa, si siede, si lecca una zampa. I notiziari discutono per tre giorni: era provocazione? era tenerezza? era un test del nemico? Il gatto diventa un caso; poi scompare, come le notizie che non servono a confermare niente.
Alla radio di stato, alle 18:00, suonano sempre due sigle: “Bollettino di pace” e “Bollettino di difesa”. I jingle sono quasi uguali, cambia una nota. Il venerdì sera partono con il timer dello Shabbat; all’alba li sovrasta l’adhān dal minareto. Gli analisti dicono che quella nota è la democrazia. I poeti dicono che quella nota è la fatalità. Gli ingegneri fanno spallucce: basta non toccare la centralina.
Arriva un giorno, inevitabilmente. Qualcuno lancia qualcosa, qualcuno risponde, qualcuno esagera. I video ricominciano a divorare minuti, i titoli si allungano, le conferenze si accorciano. Il software del confine invia una notifica: «Modalità Tempesta attivata. Termini e condizioni aggiornati». Nel panico ordinato delle sirene torna il catechismo di sempre: finestra, scudo, proporzione. Gli adulti fanno la conta, i bambini contano fino a dieci e chiedono se basta.
La mattina dopo, le due cancellerie dichiarano che è stato un graffio. I partiti si spartiscono le colpe, i commentatori ripuliscono il lessico, le ONG riempiono le tabelle. Tutti dicono «mai più», ma in corpo otto. Le bandiere nuove sventolano come pubblicità resistente agli strappi. È odore di ozono, non di futuro.
Lo diranno in molti: errore, provocazione, destino. La verità è meno poetica: non c’è pace che sopravviva ai comunicati, non c’è guerra che muoia di stanchezza. Due popoli, due Stati è un’equazione elegante scritta con lo stesso inchiostro corrosivo. Perché funzioni occorre cambiare grammatica, non la punteggiatura: togliere la parola «eccezione», mettere la parola «limite».
Il giorno che conterà davvero non avrà telecamere. Nessuna sirena, nessun comunicato, nessun funerale per trenta giorni di fila. Niente hashtag. Un gatto attraverserà la strada e resterà un gatto. Se quel silenzio regge, chiamatela pace. Fino ad allora: due popoli, due Stati, due guerre — aggiorna, ricarica, ripeti.
— 𝐀𝐫𝐢𝐬𝐭𝐞𝐚