Educazione sessuale a scuola

Educazione sessuale a scuola

𝐃𝐨𝐯𝐞 𝐩𝐚𝐬𝐬𝐚 𝐢𝐥 𝐜𝐨𝐧𝐟𝐢𝐧𝐞 𝐭𝐫𝐚 𝐜𝐨𝐧𝐬𝐞𝐧𝐬𝐨 𝐞 𝐝𝐢𝐫𝐢𝐭𝐭𝐨

Alla Camera è in discussione il cosiddetto ddl Valditara: educazione sessuale alle medie e superiori subordinata al consenso scritto e informato dei genitori, con visione preventiva dei materiali e richiesta almeno 7 giorni prima; obbligo esteso anche alle attività extra-curricolari inserite nel PTOF. Dopo le polemiche, la Lega ha ritirato il divieto secco alle medie: ora medie e superiori sono equiparate, ma resta l’opt-in familiare. Il governo rivendica la “tutela delle famiglie”, le opposizioni denunciano un freno di fatto all’offerta. In parallelo, al Senato il ddl S. 979 propone l’impianto opposto: curricolo strutturato, docenti formati, un’ora aggiuntiva a settimana e fondi dedicati. Due modelli, due idee di scuola. Qui non stiamo discutendo “cosa pensano i genitori” o “quali valori imporre ai ragazzi”. Stiamo decidendo che cos’è la scuola: una piazza pubblica della conoscenza o una somma di salotti privati. Se l’accesso all’educazione sessuale diventa permesso domestico, non stai “coinvolgendo” le famiglie, stai smontando l’universalità dell’offerta e trasformando un sapere civico in attività facoltativa. La cultura del consenso non nasce dal veto, nasce dalla conoscenza condivisa.

L’opt-in ha una grammatica sociale spietata: classi spezzate, platee dimezzate, stigmi per chi partecipa e ignoranza certificata per chi resta fuori. È il trionfo del “meglio non parlare” nell’epoca in cui pornografia, sexting, manipolazione digitale parlano ai ragazzi ogni giorno. L’idea che il silenzio protegga è un’illusione consolatoria: dove la scuola tace, educano gli algoritmi. La vera domanda non è “volete che vostro figlio partecipi?” ma “chi volete che lo formi: la scuola o il feed?”.

C’è poi un equivoco culturale: chiamare “neutralità” il rinvio infinito. La neutralità non è non scegliere; è dare a tutti gli strumenti per scegliere. Educazione sessuale significa linguaggio del corpo, consenso, limiti, rispetto, salute; significa nominare le cose, perché ciò che non sai nominare ti governa. Rifiutare il curricolo universale in nome della “libertà educativa” è una scorciatoia che confonde autorità genitoriale con monopolio della conoscenza.

Il terreno è anche generazionale. Gli adulti temono “l’ideologia”, mentre i ragazzi vivono relazioni reali in spazi ibridi (scuola/online) dove si gioca potere, vergogna, desiderio, consenso. Senza educazione sessuale la scuola abdica alla sua funzione emancipativa e lascia il campo a codici tribali: meme al posto di concetti, sfide al posto di limiti, gogna digitale al posto di responsabilità. Rimettere le cose a posto è igiene democratica.

Infine, la parola “genitori”. Coinvolgerli è giusto. Ma coinvolgere non vuol dire delegare né vagliare capitolo per capitolo con censura preventiva. La collaborazione scuola-famiglia ha un punto di equilibrio semplice: trasparenza sui percorsi, spazi di confronto, monitoraggio degli esiti. L’ingresso alla conoscenza, però, deve restare uguale per tutti: curricolo pubblico, docenti formati, valutazioni serie. È così che si proteggono minori e pluralismo, non con il timbro sul modulo.

Se vogliamo ridurre violenza, abusi, stereotipi e solitudini, servono percorsi universali e stabili (formazione docenti, ore dedicate, partnership con consultori/ASL, misurazione degli impatti), non barriere burocratiche e platee a invito. Correggere il ddl Valditara togliendo l’opt-in familiare e assumere l’impianto del S. 979 significa scegliere la scuola come bene comune, non come perimetro privato. La libertà educativa non è dire no a ciò che spaventa; è mettere tutti in condizione di capire.

-𝐀𝐫𝐢𝐬𝐭𝐞𝐚