Nietzsche come educatore (mancato)

Nietzsche come educatore (mancato)

𝐏𝐞𝐫 𝐟𝐚𝐫𝐥𝐚 𝐟𝐢𝐧𝐢𝐭𝐚 𝐜𝐨𝐧 𝐥𝐚 𝐬𝐜𝐮𝐨𝐥𝐚

Nietzsche non ha una scuola, non ha allievi, non ha un’aula. Eppure tutta la sua filosofia parla di come si fabbricano gli uomini: come si addestra il gregge e come, soprattutto, deve prepararsi chi vuole uscirne. La sua biografia attraversa un fallimento scolastico: professore troppo presto, troppo malato, troppo in anticipo. In questo senso è un educatore mancato: prende talmente sul serio l’educazione che ne fa esplodere le forme stabilite. Ma il vero crollo non è individuale, è strutturale: si sfalda l’idea di Bildung, la formazione come crescita armonica dell’individuo e, al suo posto, avanzano tre parole-soglia che per Nietzsche si incastrano come ingranaggi: addestramento, gregge, potere. Quella che chiamano educazione, in realtà, è addestramento: la forma privilegiata con cui il potere lavora sui corpi e sulle coscienze; il gregge è il risultato previsto, non l’effetto collaterale. In questo quadro Nietzsche non è il professore che brontola sul “declino della cultura”, ma colui che legge la scuola come il laboratorio di una nuova teologia politica: la chiesa secolare dell’Europa moderna, con i suoi riti, i suoi sacramenti, le sue colpevolizzazioni.

Quando scrive "Sull’avvenire delle nostre scuole" e soprattutto "Schopenhauer come educatore", Nietzsche ha già perso fiducia nell’istruzione per tutti come promessa di emancipazione. L’università, il ginnasio, i programmi ministeriali: tutto gli appare come un enorme dispositivo di selezione al ribasso, che distribuisce competenze e titoli nella stessa misura in cui spegne qualunque vocazione intempestiva. Dietro la celebrazione della “cultura generale” vede all’opera una logica molto più semplice: preparare funzionari per lo Stato-Leviatano e servi per l’economia. È una teologia della colpa rovesciata: non si nasce già colpevoli davanti a Dio, si diventa colpevoli davanti all’ordine sociale se non ci si lascia educare nel modo giusto. Il cattivo studente, il non allineato, è il nuovo peccatore; la pagella, il voto, diventano il piccolo tribunale quotidiano dove si misura la nostra fedeltà al gregge.

Per Nietzsche il destino non è mai una quiete che si compie da sola. È l’inquietudine di una vita che deve continuamente rifare i conti con ciò che le è capitato, fino a poter dire: «così volli». In questo senso la Bildung non è un cammino verso l’armonia, ma un lavoro instabile di metamorfosi: la natura singolare di ciascuno che attraversa le forme della cultura senza lasciarsi chiudere in nessuna. Dove la scuola moderna promette pacificazione – competenze, integrazione, «realizzazione di sé» – Nietzsche vede piuttosto un compito più duro: trasformare la propria casualità in stile, fare della crisi la materia di una forma, senza garanzia di riuscita.

Di qui la decisione di spostare l’educazione fuori dalle aule. Nietzsche non fonda scuole, non inventa programmi, non disegna riforme. Decide che l’unica pedagogia ancora degna è quella destinata a pochi, disseminata nei libri come segnali di direzione: li riconosce solo chi li vede, solo chi può. Non gli interessano allievi e seguaci. Una volta indicata la via, chiede anzi di essere smentito, tradito, superato, perché ognuno trovi la propria traiettoria. L’immagine dei “legislatori del futuro” in "Al di là del bene e del male" e nella "Genealogia della morale" nasce esattamente qui: se l’educazione ufficiale produce amministratori del già dato, qualcuno dovrà preparare, in modo clandestino, coloro che avranno il coraggio di dire “così è stato finora, ma d’ora in poi vale altro”. Il legislatore nietzscheano non è un ministro, non è un giurista, non è un capo partito: è l’individuo che assume su di sé la “colpa” (in senso laico: l’onere senza alibi, non più scaricabile su Dio o sulla Storia) di creare valori senza poterli attribuire a un ordine superiore. L’educazione aristocratica che Nietzsche immagina è una preparazione a questa responsabilità radicale: imparare a vivere senza appoggi trascendenti, sapendo che ogni nuovo valore è insieme liberazione e imposizione, debito verso se stessi prima che verso gli altri.

L’aristocrazia di cui parla non coincide con una classe sociale: è una figura tragica, una postura dell’esistenza. Non è la nobiltà di sangue e nemmeno il ceto medio vincente della meritocrazia; è chi regge l’urto del pensiero quando scopre che il bene e il male hanno una genealogia e non un fondamento. In Schopenhauer come educatore il maestro è colui che mostra, con la propria vita, che si può esistere contro il proprio tempo senza dissolversi. L’educatore non “spiega” contenuti: spezza l’identificazione con l’epoca. Ma ogni processo di estrazione dal proprio tempo ha un costo di responsabilità: chi si sottrae al consenso appare ingrato, improduttivo, antisociale. Il filosofo del futuro, per Nietzsche, deve accettare questa accusa anticipata. Non è una vittima, ma porta su di sé una sorta di contro-peccato: non obbedire al dio della maggioranza.

Da questo punto la democrazia entra in scena non come bersaglio facile, ma come problema insolubile. La scuola di massa è il sacramento centrale della democrazia moderna: qui si promette che ogni individuo, debitamente formato, sarà libero e uguale. Nietzsche smonta la promessa dall’interno: se l’educazione è progettata per mantenere il gregge compatto, il patto democratico regge proprio sulla rinuncia a qualsiasi legislazione interiore forte. Il cittadino deve sentirsi autore della legge, ma soltanto entro un perimetro di valori dati per intoccabili. È la teologia del «nuovo idolo», lo Stato: la sovranità popolare prende il posto della volontà divina, ma la struttura della colpa resta identica. Chi mette in questione i valori di base — non la norma contingente, ma il sistema di pesi e misure — appare come una minaccia alla comunità. L’educazione aristocratica nietzscheana entra in attrito con la democrazia non perché osi discutere valori condivisi (la democrazia lo fa di continuo), ma perché sposta l’origine dei nuovi valori fuori dalle procedure del consenso: per Nietzsche, in ultima istanza, non è il popolo a decidere che cosa vale, bensì il lavoro sperimentale di pochi che si assumono in prima persona il rischio di proporre altre misure del bene e del male.

E tuttavia Nietzsche non offre nessuna uscita ordinata. I suoi testi non si chiudono con un progetto di riforma della scuola, con un modello alternativo di liceo o di università e, tanto meno, di Stato. Lasciano in eredità una costellazione di figure: il professore bruciato dalla propria epoca, il maestro inattuale che mostra come allontanarsi, il legislatore che si assume una responsabilità che nessuna istanza superiore può assolvere. Nel nostro presente iper-scolarizzato, dove si parla di competenze trasversali, soft skills, cittadinanza attiva, quelle figure sono ancora più disturbanti. Perché obbligano a una domanda che nessuna riforma curricolare può assorbire: che cosa succede se prendiamo sul serio l’idea che alcuni debbano essere educati non a inserirsi nel mondo, ma a ripensarne le misure? E se la democrazia non riuscisse a reggere questa possibilità, se avesse bisogno di soffocarla per sopravvivere, dove andrebbe allora collocata l’educazione degna di questo nome: dentro o fuori le sue istituzioni?

— 𝐄𝐫𝐚𝐜𝐥𝐢𝐭𝐨 𝐝𝐢 𝐑𝐢𝐚𝐥𝐭𝐨