Nietzsche e il pensiero di stato

Nietzsche e il pensiero di stato

Nietzsche non è «politico» nel senso dei partiti, ma pensa politicamente alla radice: interroga gli apparati che fanno dell’uomo un animale addomesticato. Qui lo Stato appare come figura suprema dell’addomesticamento moderno: non semplice governo, ma dispositivo di interiorizzazione. In Zarathustra è «il più freddo di tutti i mostri freddi»: il nuovo idolo che chiede riverenza, promette sicurezza, esige identità. Il suo ghiaccio non è psicologico: è metafisico. È la glaciazione della vita in forma amministrata, la sostituzione dell’evento con il regolamento, del rango (Rangordnung) con l’eguaglianza indifferenziata, della promessa con il contratto.

L’Europa ottocentesca si organizza e si consolida attraverso Stati-nazione, eserciti, burocrazie, scuole; Nietzsche osserva il fenomeno non dall’esterno ma come malattia infantile della civiltà. Lo Stato-nazione è farmaco e veleno (phármakon): produce ordine, alfabetizza, pacifica; ma al contempo fabbrica l’«ultimo uomo», il soggetto che preferisce la sicurezza alla grandezza, il benessere al rischio, la moralità del gregge alla disciplina delle altezze. Più che sognare un’utopia anarchica, pensa per gradi gerarchici: ogni ordine sano presuppone differenza di forze, ascesi della forma, nómos dell’eccellenza. Lo Stato moderno, invece, universalizza l’orizzontalità, legittima il risentimento come criterio, massifica il giudizio.

Lo Stato nasce da due motori: la memoria del debito e la tecnica della punizione. In Genealogia della morale il «diritto» non è il regno neutro della Giustizia ma il campo di battaglia in cui i forti si danno misura e vengono poi misurati dai deboli. La pena addestra il corpo, poi scende nell’anima: da qui la «cattiva coscienza», cioè l’istinto di aggressione rivolto verso di sé. Lo Stato moderno capitalizza questa interiorizzazione: educa la colpa, istituisce un’economia degli scrupoli, trasforma l’obbedienza in virtù pubblica. La macchina funziona perché promette: welfare, pace, sicurezza, identità, riconoscimento. Ma ogni promessa amministrata ha un costo: spegne il desiderio di nuovi valori e la spinta a trasvalutare i vecchi.

Da qui l’idiosincrasia nietzscheana per ogni politica che si fondi sul «noi» prima che sui «gradi» dell’anima. Nazionalismo, socialismo, democrazia parlamentare sono per lui tre volti di un medesimo esperimento: governare mediante risentimento. Il nazionalismo mobilita l’odio come cemento; il socialismo moralizza l’economia; la democrazia fa della maggioranza un dio. Tutti e tre chiedono al filosofo di farsi pedagogo del gregge. Nietzsche rifiuta: non consegna il pensiero a nessun «noi». Vuole una politica dell’elevazione, non dell’eguaglianza; un’aristocrazia di tipo, non di censo; un’Europa dei «buoni Europei», non il mercato comune delle mediocrità.

Se lo Stato è «mostro freddo», allora il compito non è rovesciarlo ma disincantarlo: sottrarlo alla sua pretesa di essere il fine e restituirlo al suo rango di mezzo. È qui che il lessico politico di Nietzsche si fa chirurgico: distinzione tra Herrschaft (signoria) e amministrazione, tra comando legittimo e gestione. Un ordine alto non coincide con l’apparato: lo supera. Lo Stato può servire la cultura solo quando non pretende di generarla; può proteggere la forma solo quando riconosce di non essere la fonte della forma. Dove lo Stato diventa padre, il pensiero regredisce all’infanzia.

Questo anti-statismo non è romantico: è classico. La Grecia tragica non ha bisogno di ministeri della cultura perché la cultura è la sua stessa paideía. Roma non chiede identità: chiede disciplina della forma. Morto il dio delle chiese, l’ultimo uomo lo cerca nel nuovo tempio: lo Stato. Nietzsche smaschera il trucco: anche questo tempio è vuoto. Resta il freddo degli sportelli. Il sacro migra nella morale e la morale nell’amministrazione. Risultato: un popolo di «giusti» che hanno delegato ogni grandezza al codice penale e ogni redenzione alla legge.

E tuttavia la diagnosi non sfocia nel nichilismo politico. Al contrario: suggerisce una politica della formazione (Bildung) che non si lasci definire né dalla piazza né dal ministero. Piccole scuole aristocratiche, ordini di disciplina interiore, alleanze di lungo corso tra spiriti affini: questa è la micropolitica nietzscheana. Non produce consenso, produce rango. Non promette uguaglianza, promette stile. È lenta, invisibile, ma prepara il terreno a una trasvalutazione: non cambiare gli uomini per decreto, bensì cambiare il valore secondo cui gli uomini si misurano.

Da qui la figura, spesso fraintesa, dell’«Oltreuomo»: non il tiranno che abolisce lo Stato, ma l’uomo che non ne ha più bisogno come ultima autorità. L’Oltreuomo non è soggetto di diritto: è soglia di forma. Sta a una distanza pericolosa dalla morale del gregge e dalla sua pedagogia. Quando lo Stato pretende di educarlo, egli si sottrae; quando lo Stato prova a limitare spazio e tempo alla sua ascesi, egli non lo combatte, lo ignora.

La politica moderna ama dirsi «realista»: mercati, confini, sicurezza. Nietzsche sposta il realismo altrove: là dove si fabbricano le gerarchie interiori. Un popolo vale per il tipo umano che rende possibile, non per il PIL; una legge vale per le altezze che non impedisce, non per il numero di trasgressori che punisce. Misura dura, impopolare: eppure, la sola che non trasformi il filosofo in funzionario.

Lo Stato è dunque necessario come strumento, micidiale come idolo. Quando il «mostro freddo» si crede un dio, la cultura diventa burocrazia e la giustizia, contabilità. L’antidoto non è l’anarchia, è il rango: ordini della forma, alleanze di spirito, disciplina del tempo lungo. Il resto è amministrazione della paura.

— 𝐄𝐫𝐚𝐜𝐥𝐢𝐭𝐨 𝐝𝐢 𝐑𝐢𝐚𝐥𝐭𝐨