Nietzsche. Guerra e pace

Nietzsche. Guerra e pace

𝐄 𝐬𝐞 𝐠𝐫𝐚𝐭𝐭𝐚𝐧𝐝𝐨 𝐥𝐚 𝐬𝐮𝐩𝐞𝐫𝐟𝐢𝐜𝐢𝐞, 𝐚𝐟𝐟𝐢𝐨𝐫𝐚𝐬𝐬𝐞 𝐢𝐥 𝐩𝐫𝐨𝐟𝐢𝐥𝐨 𝐝𝐢 𝐆𝐚𝐧𝐝𝐡𝐢?Nietzsche non è né il poeta della guerra né il santino della pace. Se si entra nel suo lessico con l’orecchio di chi ha visto il Novecento, si è tentati di trascinarlo da una parte o dall’altra: profeta dei massacri o malinteso critico della violenza. Ma per lui “guerra” e “pace” sono parole caricate da una storia precisa: non coincidono ancora con la macchina bellica degli Stati industriali, né con la coperta ideologica di una pace stanca che preferisce la sicurezza a ogni rischio.

Quando Nietzsche parla di guerra, prima di tutto pensa all’ἀγών, alla lotta come forma di selezione, di messa alla prova, di accrescimento. Nella Gaia scienza scrive che si deve amare la pace «come mezzo per nuove guerre» e la breve pace come «una sospensione» del conflitto, non come sua negazione. Detta così sembra un inno al sangue. Ma questa “guerra” non è l’artiglieria pesante: è il contrario della stagnazione dell’“ultimo uomo” che ha disimparato a rischiare. Guerra è il nome di una tensione che attraversa forze, valori, tipi umani; è il modo in cui la vita, per lui, non rimane ferma ma cresce, si sposta, rompe il guscio.

Simmetricamente, quando Nietzsche attacca la pace, non se la prende con l’assenza di proiettili. Mira a un certo tipo di pace: quella che nasce dal risentimento, dalla paura, dall’eguaglianza come livellamento verso il basso. La pace cristiano-borghese che predica “amore” perché non ha più forza, che condanna la violenza perché ha già perso il coraggio di affermare qualcosa. Nella Genealogia della morale il discorso è brutale: il “buono” originario è il forte, il nobile, quello che dice sì a sé stesso; il “buono” successivo è il debole che si presenta come innocuo, mite, pacifico, e così — sotto la maschera della pace — inverte i valori. La pace diventa una tecnica del debole: non la fine del conflitto, ma il suo capovolgimento nascosto.

Che Nietzsche leghi guerra e crescita non significa affatto che sia un interventista ante litteram. Quando guarda alla guerra reale del suo tempo — la franco-prussiana, la retorica nazionalista tedesca, il culto dello Stato armato — il registro cambia: prevalgono disgusto e diffidenza. Quella guerra moderna gli appare come un fenomeno di massa: ubriacature nazionalistiche, militarismo gregario, patriottismo di cartone. Qui la sua idea di “guerra” non coincide più con la guerra storica degli Stati: nella guerra di Stato vede soprattutto il lato del branco, l’individuo fuso nella folla, l’obbedienza alla bandiera. Dove tutti marciano allo stesso passo, l’ἀγών aristocratico che immaginava si spegne: non è più confronto fra forze singolari, è mobilitazione di mandrie. Il contrasto non è una contraddizione: è precisamente la distanza fra il suo concetto di conflitto creativo e le pratiche belliche del suo secolo.

Così anche la pace, se la si spoglia della retorica umanitaria, può diventare nel suo vocabolario qualcosa di molto diverso dal “riposo”. Pace è la forma superiore del controllo: la gestione amministrativa dei conflitti, la neutralizzazione di qualsiasi eccedenza. L’Europa “pacificata” dei valori uguali per tutti può assomigliare, nelle sue pagine, a un grande allevamento ben gestito: niente più guerre, ma anche niente più punte, nessun pericolo, nessun rischio. Lungi dall’essere un’utopia realizzata, questa pace somiglia al trionfo dell’ultimo uomo: quello che «ammicca e dice: un tempo tutto era diverso» e non vuole più sacrificare nulla.

Per Nietzsche, allora, né “guerra” né “pace” sono valori innocenti: sono maschere con cui un’epoca giustifica la propria salute o la propria decadenza. La guerra che lo interessa non è la carneficina di Stato, il gregge armato e ubriaco di nazionalismo, ma il conflitto selettivo che accresce forma, stile, energia. La pace che detesta non è l’assenza di proiettili, ma la pace molle del risentimento, quella che chiama “umanitaria” la propria paura e trasforma la rinuncia alla lotta in valore assoluto. In questo senso il suo sguardo si incrocia, paradossalmente, con quello di Gandhi quando questi insiste che «la nonviolenza è la virtù di chi ha coraggio; la viltà ne è il contrario. Nonviolenza e codardia si escludono a vicenda»: anche per Nietzsche, la rinuncia alla violenza è degna solo se è gesto di forza, non di stanchezza. E quando Gandhi arriva a dire che «se l’unica scelta è fra violenza e codardia, io consiglio la violenza; preferirei che ci si difendesse con le armi piuttosto che assistere inermi al proprio disonore», dà in forma etico-politica ciò che in Nietzsche resta analisi dei tipi umani: peggiore della crudeltà è la viltà che si traveste da virtù, peggiore della guerra è la pace come anestesia. In entrambi, con linguaggi diversi, il discrimine non passa tra guerra e pace, ma tra coraggio e paura, tra un sì e un no alla vita.

Il punto, per Nietzsche, non è scegliere fra guerra e pace ma scavare sotto queste parole. Guerra diventa il nome mitico della selezione, del rischio, della prova; pace il nome mitico della conservazione, della tutela, del riposo. Nessuna delle due è “buona” in sé. Il suo sospetto cade su entrambe quando vengono assolutizzate. Una guerra senza misura, elevata a valore in sé, gli apparirebbe come la forma più stupida di volontà di potenza: puro spreco, pura distruzione di ciò che potrebbe crescere. Una pace senza fine, che si chiude su sé stessa, è l’altra faccia dello stesso nichilismo: mondo senza crepe, senza domande, senza oltre.

Molte letture del Novecento hanno usato Nietzsche come maschera. I regimi hanno preso le sue metafore di guerra e le hanno incollate sulle proprie campagne di sterminio; i pacifismi morali gli hanno cucito addosso la divisa del “precursore del fascismo”, per esorcizzare ogni discorso sul conflitto. Entrambi gli usi tradiscono l’impianto storico-critico del suo pensiero: chiamano “guerra” ciò che è solo macchina di morte; chiamano “pace” ciò che è solo paura del rischio. Il suo martello concettuale serviva precisamente a questo: scoprire chi si nasconde sotto i grandi nomi, quali interessi, quali tipi umani.

Resta allora una formula scomoda: Nietzsche è contro la guerra quando è gregge armato, ed è contro la pace quando è anestesia collettiva. Sta dalla parte del conflitto interno, del contrasto che fa crescere, delle ferite che aprono possibilità; e dalla parte di una tregua che non addormenta ma raccoglie le forze. Che oggi lo si usi per benedire i cannoni o per maledire ogni gesto di forza, dice più di noi che di lui. Nietzsche lo si capisce davvero solo quando si smette di arruolarlo, e si accetta che “guerra” e “pace” siano, prima di tutto, nomi diversi della nostra paura di vivere.

- 𝐄𝐫𝐚𝐜𝐥𝐢𝐭𝐨 𝐝𝐢 𝐑𝐢𝐚𝐥𝐭𝐨