Nietzsche oltre l'equivoco
𝐆𝐞𝐧𝐞𝐚𝐥𝐨𝐠𝐢𝐚 𝐝𝐞𝐥 𝐫𝐢𝐬𝐞𝐧𝐭𝐢𝐦𝐞𝐧𝐭𝐨 𝐧𝐨𝐧 𝐚𝐧𝐭𝐢𝐬𝐞𝐦𝐢𝐭𝐢𝐬𝐦𝐨
Nietzsche “antisemita”? La domanda, così posta, appartiene alla costellazione delle semplificazioni morali che la modernità produce per difendersi dall’eccesso di complessità. Confonde piani, mescola genealogia e propaganda, scambia una diagnosi della forma-morale per una presa di posizione völkisch. Bisogna distinguere, con pazienza severa. La scorciatoia che chiama Nietzsche antisemita ne tradisce il lavoro; la scorciatoia opposta, che lo assolve ignorando l’antigiudaismo genealogico, tradisce la verità del suo smascheramento. In lui, la critica all’antisemitismo (come politica del gregge) e la critica alla morale giudaico-cristiana (come forma storica del risentimento) non si escludono. Fra le due sta il pensiero, che è sempre tragico quando riesce a sottrarsi ai luoghi comuni.
Partiamo da qui: l’antisemitismo ottocentesco è politico-biologico, pensa il “popolo” come sostanza, fonda il giudizio su sangue, suolo e nazione. Da costoro Nietzsche prende distanze incolmabili. Lo fa senza doppi fondi: denuncia il nazionalismo tedesco e le sue febbri, deride la pubblicistica “etnica”, si separa dall’editore compromesso con gli agitatori e nelle lettere a chi lo vorrebbe arruolare (Fritsch) risponde con sarcasmo glaciale. Per lui è questione d’onore: la menzogna ideologica non diventa rispettabile cambiando bersaglio. Non c’è qui alcun katechon disponibile a trattenere l’onda: l’antisemitismo, come ogni politica del risentimento, è per Nietzsche forza reattiva, gregge in cerca d’identità, volontà di potenza rovesciata in volontà di colpa. La diagnosi è etico-politica, non razziale.
Nietzsche riconosce agli ebrei una forza storica eminente: tenacia, disciplina della memoria, potenza formativa. In Al di là del bene e del male (§251) li pensa come lievito dell’Europa che viene – non razza da segregare, ma energia capace di elevare e comporre l’insieme europeo, contro le febbri del nazionalismo. È un giudizio assimilazionista-aristocratico: preferisce il mescolamento alto delle culture alla purezza di sangue, la forma alla fisiologia, la costruzione europea all’identitarismo tribale. Dove una tradizione riesce a spiritualizzare la potenza e a generare futuro comune, Nietzsche riconosce merito e destinazione (lo fa persino con l’Islam). Pur servendosi del lessico ottocentesco di “razza” e “purezza”, Nietzsche lo piega politicamente verso un mescolamento aristocratico europeo: contro l’identitarismo di sangue, in direzione di una forma comune, in senso extra-morale.
Dal lato propriamente intra-morale, invece, inscrive “gli ebrei” nella drammaturgia europea come potenza sacerdotale capace di trasvalutare i segni: ciò che era “buono” per il nobile diventa “cattivo”, ciò che era “umile” si proclama “santo”. È il suo teorema: non esistono valori eterni, ma nómoi storici, ordinamenti del senso che nascono da conflitti di forze. “Ebreo” qui non nomina un’etnia, bensì una forma-tipo: l’intelligenza della memoria, la tecnica del debito, la micrologia della coscienza. Ciò che il sacrale-sacerdotale compie – inversione, interiorizzazione, colpevolizzazione – istituisce la lunga parabola della morale europea fino al cristianesimo. Questo è il punto: una storia critica del dover-essere morale, non l’anatomia di un popolo.
Nietzsche costruisce figure secondo una logica rivelativa: mostra, per eccesso, ciò che nella normalità resta velato. Lo “smascheramento” (apokalypsis) è il suo metodo: rivelare è portare fuori dal nascondimento, ma non per pacificare; per esporre la ferita. La caduta di livello nasce quando la tipologia diventa fisiognomica, quando l’oscillazione tra ammirazione e polemica viene tradotta in slogan. Lì la lettura cede alla propaganda, e il pensiero si perde. Anche il suo. La storia della ricezione, poi, ha aggravato la confusione. L’operosa mitografia familiare ha offerto un Nietzsche nazionalizzabile del tutto falso.
Ma il punto filosofico non è decidere se Nietzsche “ami” o “odi” gli ebrei – registro psicologico che non gli appartiene. Il punto è se la sua genealogia illumini la macchina morale d’Europa e il suo lungo governo del “debito” (Schuld: debito/colpa). In tal senso, la figura ebraica è specchio rivelante della nostra interiorità: invenzione della coscienza colpevole, tecnica della memoria, superiorità della promessa sul fatto. Senza questa figura non comprenderemmo la traiettoria cristiana, né la secolarizzazione che ancora la prolunga. Il tragico sta qui: ciò che ha salvato l’Europa dalla hybris della forza nuda – la spiritualizzazione della potenza – è anche ciò che ha prodotto un continente stanco, consolidato nell’ascetismo del valore.
Si dirà: ma non si rischia, così, di giustificare l’ingiustificabile, di alimentare stereotipi? Rischio reale, se si abbandona la differenza dei piani. La genealogia non autorizza la persecuzione; la tipologia non legittima il marchio. L’antisemitismo costruisce il nemico per fondare il popolo; la genealogia interroga il popolo per smascherare il nemico interiore. Il primo ha bisogno di capri espiatori; la seconda chiede responsabilità. Nel primo domina l’odio; nella seconda la filologia — amore del testo, pazienza del dettaglio, ascolto del passato.
Resta il compito, cacciariano: pensare politico-teologicamente il tragico senza ridurlo a morale. L’Europa non uscirà dal suo nichilismo per decreto: deve misurarsi con le sue origini sacerdotali, con il demone del risentimento che l’ha ordinata e, insieme, civilizzata. Questo significa leggere Nietzsche non come araldo di identità, ma come rivelatore di forme: ci consegna specchi, non bersagli. E chiede al lettore la sola virtù che salva dal gregge – il coraggio di distinguere.
— 𝐄𝐫𝐚𝐜𝐥𝐢𝐭𝐨 𝐝𝐢 𝐑𝐢𝐚𝐥𝐭𝐨