PERCHÉ L'ORO AL POPOLO NON È UNA GRANDE IDEA

PERCHÉ L'ORO AL POPOLO NON È UNA GRANDE IDEA

𝗖𝗼𝘀𝗮 𝗰’𝗲̀ 𝗱𝗮𝘃𝘃𝗲𝗿𝗼 𝗶𝗻 𝗴𝗶𝗼𝗰𝗼 𝗻𝗲𝗹𝗹𝗼 𝘀𝗰𝗼𝗻𝘁𝗿𝗼 𝘁𝗿𝗮 𝗴𝗼𝘃𝗲𝗿𝗻𝗼, 𝗕𝗮𝗻𝗰𝗮 𝗱’𝗜𝘁𝗮𝗹𝗶𝗮 𝗲 𝗕𝗖𝗘 𝘀𝘂𝗹𝗹𝗲 𝗿𝗶𝘀𝗲𝗿𝘃𝗲 𝗮𝘂𝗿𝗲𝗲 𝐢𝐭𝐚𝐥𝐢𝐚𝐧𝐞

C’è un emendamento di poche righe, infilato nella legge di bilancio, che ha aperto un contenzioso con la Banca centrale europea e ha riportato al centro la domanda: «di chi è l’oro custodito nei caveau della Banca d’Italia?». La risposta politica della maggioranza è chiara e identitaria: appartiene al popolo italiano, e l’Unione dovrebbe limitarsi a prenderne atto. La risposta tecnica di Francoforte è altrettanto netta: attenzione a non toccare, nemmeno per via simbolica, l’indipendenza della banca centrale. In mezzo, c’è un patrimonio di circa 2.452 tonnellate di oro e un discreto tasso di confusione pubblica.

Le cifre sono il punto meno controverso. Secondo i dati della stessa Banca d’Italia e delle statistiche internazionali, Roma siede da anni sul podio mondiale delle riserve auree: terzo posto tra le banche centrali, con uno stock che oggi vale nell’ordine dei 270–300 miliardi di euro, circa il 13% del prodotto interno lordo. Le tonnellate sono sostanzialmente le stesse da decenni; quello che oscilla è il prezzo dell’oro, che negli ultimi anni ha corso più dei titoli di Stato italiani. È un “tesoro” reale, ma che svolge una funzione precisa: rafforzare il bilancio di Via Nazionale e, per la sua quota, dell’intero Eurosistema, offrendo una garanzia di ultima istanza sulla solidità della moneta.

Qui conviene fissare un primo punto: la proprietà contabile di quell’oro è iscritta nel bilancio della Banca d’Italia, non in quello dello Stato. L’Istituto è una società per azioni a partecipazione diffusa – per lo più banche e assicurazioni italiane, con qualche socio estero – ma è anche, e soprattutto, la banca centrale nazionale che partecipa al capitale della BCE e gestisce una fetta delle riserve ufficiali dell’euro. Nel quadro dei Trattati, la detenzione e la gestione di queste riserve spettano alle banche centrali, non ai governi. Proprio per evitare scorciatoie di finanza creativa è vietato usare il bilancio delle banche centrali per finanziare direttamente il settore pubblico.

L’emendamento di Fratelli d’Italia si inserisce qui. La versione originaria prevedeva che «le riserve auree detenute dalla Banca d’Italia appartengono al popolo italiano»; quella riscritta dal Ministero dell’Economia prova a specificare che la gestione resta in capo a Via Nazionale, nel rispetto delle regole europee. Per la maggioranza si tratta di una norma di principio: blindare l’oro contro eventuali pretese di soggetti privati o esteri e ribadire una sovranità “nazionale” su un bene visto come strategico. Per la BCE, che ha già espresso due pareri critici, il problema è diverso: non è chiaro quale sia la finalità concreta della norma, e il rischio è di aprire un varco al condizionamento politico della banca centrale, proprio su un asset che dovrebbe rimanere neutrale rispetto alle esigenze di cassa del governo.

"Dietro lo scontro di interpretazioni c’è un equivoco più ampio, alimentato da slogan come “oro del popolo”. Che le riserve auree siano accumulate nell’interesse del Paese è ovvio; che questo si traduca in un diritto di disposizione del governo è tutt’altro discorso"

Dietro lo scontro di interpretazioni c’è un equivoco più ampio, alimentato da slogan come “oro del popolo”. Che le riserve auree siano accumulate nell’interesse del Paese è ovvio; che questo si traduca in un diritto di disposizione del governo è tutt’altro discorso. In un sistema di banca centrale indipendente, “interesse del popolo” significa garantire stabilità monetaria e finanziaria, non trasformare lingotti in coperture di spesa. Per questo la BCE insiste: l’oro può essere mobilizzato solo in coerenza con gli obiettivi e l’autonomia delle banche centrali dell’Eurosistema, non per abbassare il deficit o finanziare un taglio di tasse.

Sul piano contabile, poi, l’idea di “usare l’oro per pagare il debito” è meno solida di quanto sembri. Anche prendendo per buono un valore di 300 miliardi, in ipotesi estrema di vendita integrale, si tratterebbe di poco più di un decimo di un debito pubblico che viaggia verso i 3.000 miliardi. Una riduzione così ottenuta sarebbe una tantum, mentre il costo degli interessi e la dinamica della spesa resterebbero invariati. In cambio, l’Italia si priverebbe di una delle poche ancore di credibilità percepite dai mercati internazionali. Senza contare un elemento spesso taciuto: una liquidazione massiccia di riserve rischierebbe di pesare anche sul prezzo dell’oro, riducendo il valore realizzabile rispetto alle stime più ottimistiche.

"Ancora prima di arrivare a una vendita effettiva, basterebbe che un governo mettesse formalmente sul tavolo l’ipotesi di usare l’oro per coprire spesa o deficit per indebolire in modo drastico la fiducia di chi oggi compra e detiene BTP. "


Ancora prima di arrivare a una vendita effettiva, basterebbe che un governo mettesse formalmente sul tavolo l’ipotesi di usare l’oro per coprire spesa o deficit per indebolire in modo drastico la fiducia di chi oggi compra e detiene BTP. Per un investitore sarebbe il segnale che il Paese sta cominciando a consumare i propri margini di sicurezza per far fronte alla gestione ordinaria del bilancio: un campanello d’allarme che si tradurrebbe quasi automaticamente in richieste di rendimenti più alti e, quindi, in uno spread più elevato rispetto agli altri titoli dell’area euro.

Il cuore della questione, quindi, non è se l’oro sia "del popolo" o "della Banca d’Italia", formula che in diritto pubblico ha margini di ambiguità gestibili. Il nodo è quanta fiducia si vuole accordare all’architettura che, dalla crisi del debito in poi, ha separato deliberatamente la gestione della moneta e delle riserve dalle urgenze di breve periodo dei governi. Si può discutere di come usare l’oro in scenari di emergenza, di quale ruolo abbia nel portafoglio complessivo dell’Eurosistema, di quanta trasparenza garantire sulle modalità di custodia e sulle eventuali operazioni. Ma trasformare questa discussione in una bandiera identitaria rischia di confondere la protezione di un patrimonio collettivo con la tentazione di tenerlo più vicino alla politica.

In definitiva, la domanda utile non è «di chi è l’oro?», bensì «quali regole ci impediscono di usarlo male?». Se la norma che afferma la titolarità "del popolo" serve solo a consolidare le tutele esistenti, ribadendo l’indipendenza della Banca d’Italia e i vincoli europei, è un esercizio retorico relativamente innocuo, anche se superfluo. Se invece diventasse, domani, il grimaldello per rimettere in discussione quella indipendenza, il costo per i contribuenti rischierebbe di essere molto più alto del valore di qualche slogan ben congegnato.

- Saldo Primario