Sciopero, liberalizzazione e qualità del servizio

Sciopero, liberalizzazione e qualità del servizio

𝐈𝐥 𝐜𝐚𝐬𝐨 𝐌𝐢𝐥𝐚𝐧𝐨 𝐜𝐨𝐦𝐞 𝐦𝐞𝐭𝐨𝐝𝐨

Lo sciopero del 7 novembre a Milano è un segnale, non il cuore del problema. Dietro le parole d’ordine — stop a liberalizzazioni, gare e “finanziarizzazione”; reinternalizzazioni; trasformazione di ATM in Azienda Speciale e gratuità — c’è una scelta di governance: come vincolare, misurare e finanziare il servizio nei prossimi anni. La contrapposizione pubblico/privato conta meno della qualità del contratto: obiettivi verificabili, penali efficaci, investimenti e dati aperti. Lo sciopero è utile se costringe a scrivere questi vincoli; è sterile se resta testimonianza. L’analisi che segue si concentra su questo: gara vs in house e ruolo economico dello sciopero nei servizi essenziali.

Nel TPL non esiste un “mercato puro”. Esiste una rete fisica indivisibile, costi fissi alti, esternalità sull’intera città. La concorrenza, quando c’è, è “per il mercato”: una gara per un contratto di servizio, non dieci operatori che corrono sulla stessa linea. Dall’altra parte c’è l’affidamento “in house”, cioè pubblico che affida a sé stesso sotto vincoli di controllo e trasparenza. In entrambi i casi l’esito operativo è lo stesso: un contratto che definisce standard, investimenti, penali, monitoraggi. La parola “liberalizzazione” è quindi meno un’ideologia e più un’ingegneria dei contratti: come si allocano rischi di domanda e di costo, chi finanzia il rinnovo della flotta, quali indicatori di qualità contano davvero (puntualità, regolarità, carico a bordo, soddisfazione utente), quanta trasparenza sui dati si garantisce ai cittadini.

Il criterio di scelta non dovrebbe essere “pubblico vs privato”, ma “capacità di esecuzione”. Una gara mal scritta crea ribassi insostenibili, spezzatini di rete, sotto-investimenti cronici; un in house opaco produce inerzie, rinvii manutentivi, protezione dall’accountability. Funziona ciò che è misurato e sanzionato: capisaldi chiari, indicatori pubblici, penali automatiche, revisione annuale dei costi standard, pubblicazione dei dati operativi in formato aperto. È qui che Milano si gioca il futuro del servizio: non sul logo dell’affidatario, ma sulla qualità del capitolato o del patto di servizio.

La gratuità è una scelta politica, non un totem identitario. Se togli la leva tariffaria, devi mettere leve certe altrove: entrate dedicate e stabili, priorità di bilancio esplicite, protezioni contro i tagli discrezionali. Senza coperture affidabili la gratuità diventa un annuncio che peggiora la qualità: mezzi più pieni, meno risorse per manutenzione, tempi di attesa più lunghi. Anche qui la domanda giusta non è “gratis sì/no?”, ma “quale mix di finanziamento garantisce standard crescenti di qualità e accessibilità?”.

Lo sciopero, in questo quadro, non è un referendum su “liberalizzazione” ma un dispositivo di segnalazione. Serve quando trasforma rivendicazioni generiche in vincoli contrattuali concreti: clausole sociali negli appalti, percorsi di stabilizzazione, limiti all’uso di subappalti, organici e turnazioni compatibili con gli standard di servizio. Diventa controproducente quando colpisce solo gli utenti senza produrre un cambiamento verificabile nel contratto: in quel caso trasferisce costo sociale senza creare pressione negoziale sul decisore. Lo sciopero efficace è quello che porta il tavolo pubblico a scrivere — in chiaro — che cosa succede se il servizio non rispetta gli obiettivi, chi paga quando salta un investimento, come si salvaguardano competenze e sicurezza.

La diffidenza verso strutture “miste” o consorzi complessi — il lessico della “finanziarizzazione” — tocca un nervo reale: più livelli societari significano più asimmetrie informative e più rischio di scaricare costi sulla rete. Ma anche un soggetto integralmente pubblico può fallire, se il controllo è rituale e i conti non sono leggibili. La vera linea di frattura è altrove: diritti di controllo e responsabilità allineati, conflitti d’interesse gestiti ex ante, reporting per asset e per deposito, audit indipendenti su costi e qualità. Sono questi meccanismi, non l’etichetta societaria, a decidere se il servizio migliora.

Se dovessimo tradurre tutto in una bussola semplice per Milano (e per le altre città): scegliere tra gara e in house significa scegliere il modo in cui si vincolano futuro e presente. Gara ben progettata = benchmark e comparazione; in house ben governato = integrazione di rete e pianificazione di lungo periodo. In entrambi i casi, senza obiettivi misurabili, penali efficaci, dati aperti e clausole sociali scritte con precisione, la discussione resta simbolica. Lo sciopero ha senso quando inchioda la politica a queste scelte verificabili; perde senso quando resta un rito di appartenenza. La città non chiede slogan sulla “liberalizzazione”: chiede autobus e metro puntuali domattina e un contratto che, tra cinque anni, garantisca standard migliori di oggi. Il resto è rumore.

— Saldo Primario