Gli scacchi. Un gioco per la vita

Gli scacchi. Un gioco per la vita

𝐐𝐮𝐞𝐥𝐥𝐨 𝐜𝐡𝐞 𝐡𝐨 𝐢𝐦𝐩𝐚𝐫𝐚𝐭𝐨 𝐝𝐚 𝐥𝐨𝐫𝐨 𝐬𝐞𝐧𝐳𝐚 𝐬𝐚𝐩𝐞𝐫𝐥𝐨Ho scritto un romanzo che fin dal titolo dichiara il mio amore per il gioco degli scacchi (“Cane Sciolto. Il nero muore e perde”, Ed. Passaggio al Bosco). Però, a parte lì, e forse in un articolo scritto in occasione della morte di quel geniaccio maledetto di Bobby Fischer, non ho mai messo bene in chiaro il mio rapporto con questo gioco, imparato nell’infanzia, giocato sempre ma saltuariamente fino all’avvento della versione online che, da allora, mi vede assiduo combattente della scacchiera appesa al video. Forse è arrivato il momento di farlo.

Il gioco degli scacchi mi ha fregato facendomi credere che fosse una questione di intelligenza, mentre in realtà era una scuola di limiti. All’inizio guardi la scacchiera e pensi di dover dimostrare qualcosa: di essere più veloce, più lucido, più “geniale” dell’altro. Poi, lentamente, scopri che il vero lavoro non è battere l’avversario, ma tenere a bada il desiderio di onnipotenza che ti sale ogni volta che vedi un cavallo piantato in mezzo alla scacchiera e ti senti Napoleone a Lipsia. Non è un semplice gioco: è il modo in cui metto ordine nel caos di quello che sono.

Quando dico che amo gli scacchi, non sto parlando delle partite perfette. Quelle sono rare, pulite, quasi astratte. Io sono affezionato alle partite sporche, storte, piene di imprecisioni: quelle in cui ti accorgi tardi di aver lasciato un pezzo in presa, provi a rimediare, ti inventi una contro–iniziativa che non sta in piedi e, chissà come, l’altro sbaglia più di te. Gli scacchi, per me, sono questo: una grammatica dell’errore. Ogni mossa sbagliata rimane lì, congelata sul tavolo, a dirti che non puoi tornare indietro. Nessuna giustificazione, nessun “non volevo”. Hai preso quel pedone “avvelenato”? Bene: ora difendi una posizione marcia per venti mosse. È una pedagogia crudele ma onesta: la realtà, fuori dalla scacchiera, somiglia molto più a una posizione compromessa che a una combinazione da manuale.

C’è poi la questione del tempo. Il tempo degli scacchi non è solo quello dell’orologio che ti mangia i secondi, è un’altra specie di tempo: quello interno alle posizioni, ai piani, alle minacce. Per questo li amo: perché mi costringono a fare i conti con il fatto che non posso avere tutto subito. Una mossa forte oggi può essere un disastro domani. Un pedone avanzato troppo in fretta diventa un bersaglio. Il tempo, sulla scacchiera, non è una linea: è una rete di conseguenze. Ogni volta che clikko su un pezzo, mi sto vincolando non a una mossa, ma a una storia che quella mossa inaugura. Gli scacchi mi ricordano che non esiste decisione neutra, e che “aspettare ancora una mossa” a volte è la cosa più attiva che puoi fare.

Amo il modo in cui il gioco smonta le illusioni psicologiche. Fuori dal tavolo siamo pieni di alibi: il contesto, gli altri, la sfortuna. Davanti alla scacchiera, invece, sei nudo. Se sottovaluti l’avversario, lui ti punisce. Se ti innamori di un’idea brillante, lui la smonta con una mossa semplice. Se cerchi la “mossa geniale” per sentirti speciale, di solito finisci per forzare la posizione. Gli scacchi mettono sotto torchio il narcisismo: ti sbattono in faccia che la maggior parte delle partite si vincono non con un colpo di genio, ma con una serie di decisioni sobrie, coerenti, quasi noiose. E io, che sono tentato spesso di trasformare la vita in un colpo di scena teatrale, ringrazio questo gioco ogni volta che mi riporta a terra.

C’è una cosa che mi colpisce sempre: il silenzio. Il silenzio che si forma intorno a una partita, anche in mezzo al rumore. In un’epoca che urla, gli scacchi sussurrano. Non c’è bisogno di alzare la voce: o le mosse reggono, o cadono. Forse il mio amore per questo gioco passa anche di qui: è uno degli ultimi luoghi in cui conta ciò che fai, non ciò che dichiari di essere, a voce più o meno alta. Qualcuno dice che gli scacchi sono guerra sublimata. Per la verità, io sono uno di quelli che lo sostiene. Però c’è un altro aspetto che mi intriga: una forma di dialogo senza parole. Due menti che si parlano per mosse, che si riconoscono e si soppesano senza bisogno di frasi. Una partita lunga può essere un rapporto intero: inizio prudente, fase di prova, fiducia, tradimento, errore, resistenza, resa. Il rispetto, lì, non è una posa: è il riconoscimento comune di aver condiviso una piccola fatica di pensiero.

La scacchiera è anche una piccola democrazia di vincoli. Tutti i pezzi hanno poteri precisi, movimenti definiti, limiti non negoziabili. Il re è il pezzo più importante, ma è quasi impotente. I pedoni sono i più deboli, ma sono quelli che, se arrivano in fondo, cambiano pelle. Nessuno è libero “in assoluto”: ognuno è libero dentro un certo tipo di costrizione. Amo gli scacchi perché non raccontano la favola della libertà illimitata e del libero arbitrio; insegnano qualcosa di più scomodo e vero: che la libertà è sapere cosa puoi fare con i vincoli che hai. E questo vale dappertutto, non solo sulla sulla scacchiera. Poi c’è il lato che non si dice, perché sembra troppo sentimentale: la compagnia dei pezzi. A furia di giocarci, finiscono per avere carattere. I cavalli, con quelle traiettorie a L, sono i sabotatori: entrano dove nessun altro può arrivare. Gli alfieri sono i fanatici delle diagonali, avanzano obliqui, quasi ideologici. Le torri sembrano statiche, ma quando esplodono sulle colonne aperte danno la misura di quanto a volte la forza sia solo una questione di linee sgombre. La donna è l’eccesso, il potere concentrato che se lo usi troppo presto rischi di bruciare. Non è superstizione, è antropologia minima: affezionarsi alla logica di un pezzo significa riconoscere il proprio carattere, capire in quali posizioni ci sentiamo a casa e in quali siamo costretti a recitare.

Ci sono giorni in cui gli scacchi sono rifugio, altri in cui sono specchio. Rifugio, quando il mondo esterno è una babele di notifiche, ansie, emergenze artificiali: mi siedo, imposto l’orologio, stringo il perimetro delle possibilità a 64 caselle e mi dico “qui, almeno, le regole sono chiare”. Specchio, quando il modo in cui gioco mi tradisce: aggredisco senza motivo perché sono nervoso, rinuncio a una buona mossa perché ho paura di perdermi, entro in una complicazione tattica non perché sia giusta, ma perché ho bisogno di provare che “ci so fare”. Il mio amore per gli scacchi passa anche attraverso questo imbarazzo: il gioco non mente mai sul tipo di persona che sei in quel momento.

Alla fine, amo gli scacchi perché sono una palestra di responsabilità in miniatura. Ogni mossa è firmata, nessuna possibilità di cancellare, nessuna scusa allineata. Tutto si tiene, tutto torna, tutto si paga. È un gioco, certamente, ma è uno di quei giochi che si portano dietro una forma di etica concreta: impari a pensare prima di muovere, a vedere le cose anche dal punto di vista dell’altro, a capire che il brillante senza solidità è solo fuoco d’artificio. E quando alzi gli occhi dalla scacchiera, se sei stato onesto, qualcosa di questa disciplina ti segue fuori, tra le strade, tra le persone, nel modo in cui scegli e nel modo in cui sbagli.