Ho poche idee. E me le tengo strette - di Dario Stanca

Ho poche idee. E me le tengo strette - di Dario Stanca

𝐒𝐜𝐡𝐞𝐝𝐚 𝐥𝐢𝐛𝐫𝐨
Titolo: Ho poche idee. E me le tengo strette
Autore: Dario Stanca
Prefazione: Antonio Castronuovo
Editore: Effigi Edizioni
Collana: Poesia
Anno: 2025
Pagine: 104
Prezzo: 12,00 €
ISBN: 979-12-5739-019-8
Acquisto: https://www.cpadver-effigi.com/.../ho-poche-idee-e-me-le.../

L’aforisma è un organismo strano: troppo breve per essere un saggio, troppo pensante per essere una battuta. Nasce come massima, sentenza, proverbio (il «conosci te stesso» greco, per esempio). In età moderna prende una prima forma riconoscibile con i moralisti francesi – La Rochefoucauld, Chamfort – che ne fanno un laboratorio di psicologia e di cinismo. Diventa poi genere letterario consapevole fra fine Settecento e inizio Ottocento, quando i romantici tedeschi – soprattutto Friedrich Schlegel e Novalis – cominciano a praticare il frammento come forma autonoma di pensiero e di scrittura. Da lì il filo passa a Nietzsche, a Cioran, fino agli aforisti contemporanei.

La sua regola è: dire poco per costringere a pensare molto. L’aforisma, come disciplina, funziona quando lascia uno spazio vuoto tra sé e il lettore, uno scarto logico da colmare. Si offre come enigma minimo, che non si risolve con un “mi piace”, ma con un secondo di silenzio interiore mentre si lavora sul significato.

È, forse, il punto d’incontro più diretto tra filosofia e letteratura: densità di concetto, precisione di immagine, ritmo di dettato e intensità di tesi. A volte argomenta, ma in assoluto preferisce mostrare, piuttosto che dimostrare. Ti mette davanti a uno specchio e poi si ritira. Per questo chi lo pratica davvero non cerca l’effetto brillante, cerca il taglio giusto: un buon aforisma non è solo una frase “bella”, è una frase che non si lascia più dimenticare. Oppure è bella in quanto vuol farsi ricordare.

Su questo crinale si colloca il libro di Dario Stanca: dentro una tradizione lunga, ma con una voce che ti viene addosso dal presente. L’ingresso è una porta stretta: l’introduzione di Antonio Castronuovo gira attorno a una definizione, «Normalità. La camicia di forza della pazzia». Basterebbe questa per raccontare il libro. Stanca non separa sani e folli; infila la follia nel quotidiano, nel modo in cui stiamo al mondo. La “normalità” è un accordo di comodo, una cura palliativa. L’aforisma è il gesto di chi strappa la camicia di forza per un secondo, giusto il tempo di sentire quanto balliamo nel vuoto.

Si ha la sensazione che Stanca parli «male dell’Uomo per non offendere nessuno». Non c’è odio per la specie, c’è una tenerezza impaziente per la nostra ostinata incapacità di capire. Quando scrive che «l’intelligenza è multipla, l’imbecillità invece è unica», ci riporta tutti nello stesso recinto: differiamo sui dettagli, ma inciampiamo tutti sullo stesso gradino, quando ci lasciamo cullare dalle convenzioni e dal sentito dire.

In tal senso, l’aforisma, in questo libro, è una trappola per catturare luoghi comuni. Li aspetta all’angolo e li prende alle spalle. «Ideologia. Un ideale andato a male»: una riga così smonta conferenze, comitati, manifesti. Non è un attacco “politico” in senso stretto; è la constatazione che ogni ideale, quando si irrigidisce in una visione del mondo indiscutibile, comincia a puzzare. A quel punto l’aforista arriva come il vicino che apre la finestra: aria nuova, grazie.

Stanca si diverte soprattutto quando mette mano al vocabolario della morale. Il gesto ricorrente è semplice: prendere una parola gonfia – umanitarismo, virtù, altruismo – e bucarla con un ago sottile. L’“umanitarismo” diventa «il galateo della falsa umanità», l’ipocrisia smette di essere demonio per farsi sistema di circolazione: senza di lei, gli urti sarebbero troppo violenti. Si intuisce la lezione di Michelstaedter: dietro la “rettorica” che promette bene, spesso c’è poco o niente. Qui la teoria non viene spiegata, viene messa in scena.

Quando entra in campo la religione, il tono resta lo stesso. «Teologia. Burocrazia applicata al Cielo»: in una riga, il sacro forse c’è, ma viene subito preso in ostaggio dagli uffici competenti. La fede sposta montagne, la scienza le attraversa: due modi diversi di abitare l’impossibile, entrambi sotto osservazione. Non c’è ateismo militante; c’è sospetto verso chi pretende deleghe in bianco in nome di Dio, della Ragione o del Progresso. La diffidenza è equamente distribuita.

Sul fondo, la politica fa il suo mestiere di teatro delle incoerenze. L’“opinione pubblica” diventa «la verità di chi non ha un’opinione». Letta di fretta, fa sorridere; letta due volte, mette a disagio. L’“Italia” «è stata fatta, ora bisogna imparare l’italiano»: paese che ha messo in scena l’unità prima di capire il copione. C’è Bauman quando la modernità “liquida” «fa acqua da tutte le parti»: decenni di sociologia compressi in una battuta forse da bar, ma intelligente.

Molto forte è la parte dedicata a tempo, vita, morte. «Il tempo ci ammazza e non torna mai sul luogo del delitto»: come conviene a quell'ottimo killer professionista senza rimorsi che è. Ogni nascita «sarà punita nei termini previsti dalla vita»: nessuna metafisica della colpa, solo il regolamento interno del condominio dell’esistenza. Il suicida è «chi non crede nell’aldiquà»: mezzo giro di frase e si capovolge un intero catechismo.

Quando l’autore guarda alle relazioni, il romanticismo passa al setaccio. «L’amore è cieco. Ma ci porta dove vuole» sposta il problema: non è solo che non vediamo, è che cederemmo volentieri il volante. «L’amore eterno lo sa che siamo mortali?» mette la promessa in imbarazzo: quanto può durare un “per sempre” appoggiato su un corpo che invecchia? L’amicizia, il matrimonio, il sesso tornano a misure umane, con la loro quota di autoinganno e contrattazione.

Il libro parla molto anche del suo mestiere: scrittura, editoria, cultura. Qui si sente la frequentazione di Verrecchia e dell’aforistica italiana recente. La “bioetica letteraria” è «quando l’ispirazione diviene sterile, si ricorre al plagio assistito»: ti ricordi subito quanti libri ti hanno dato quella sensazione di déjà-vu. Il best seller è un sassolino che si atteggia a pietra miliare, la cultura di massa “non pesa” proprio perché ridotta a flusso leggero e dimenticabile. L’aforista si tira fuori dal mucchio solo nella misura in cui colpisce anche la propria categoria.

Il tratto decisivo è che Stanca non si mette al riparo. Molti aforismi sono centrati sull’io, ma senza confessioni teatrali. La coscienza «è sempre l’ultima a sapere le cose», la memoria è di ferro ma la volontà è di “bassa lega”, «il lusso» autentico è «vivere al di sopra della propria intelligenza». Il cinismo diventa autocritica di specie: niente “loro” da deridere e “noi” innocente. Siamo tutti nello stesso laboratorio di fallimenti, lui compreso. L’egoista è condannato solo perché mette il proprio interesse davanti al nostro: basta questa torsione a far saltare molte indignazioni morali.

Sul fondo lavora un’impostazione filosofica più solida di quanto la leggerezza lasci pensare. Michelstaedter nell’allergia per la “rettorica”, la scuola dei moralisti nel modo di lavorare su vizi e virtù, Verrecchia ogni volta che religione e potere vengono messi in ridicolo con calma glaciale. Ma a tenere tutto insieme è un’idea semplice: il linguaggio è il luogo del delitto. Le nostre parole ci fregano. L’aforisma è il verbale secco che ricostruisce dinamica e movente.

Il risultato è un libro che puoi leggere a salti e che, sommato, costruisce un discorso unitario sul nostro modo di stare al mondo. Non offre vie d’uscita né salvezze, non propone ricette. Offre qualcosa di più modesto e più raro: una serie di specchi, tutti un po’ deformanti, in cui ogni tanto intravedi una smorfia che riconosci come tua. E lì capisci che ridere di te stesso non è una posa elegante: è forse l’unico gesto filosofico ancora praticabile in tempi di slogan e verità di gruppo.

— 𝗠𝗶𝗿𝗼 𝗥𝗲𝗻𝘇𝗮𝗴𝗹𝗶𝗮