Shakespeare, genio europeo - Quattro secoli di memoria vivente, di Henry Suhamy

Shakespeare, genio europeo - Quattro secoli di memoria vivente, di Henry Suhamy

𝗣𝗿𝗲𝗳𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗱𝗶 𝗠𝗮𝘅𝗶𝗺𝗶𝗹𝗶𝗮𝗻 𝗡𝗶𝘀𝗶

Scheda libro
Titolo: SHAKESPEARE, GENIO EUROPEO — Quattro secoli di memoria vivente
Autore: Henri Suhamy
Prefazione: Maximilian Nisi
Editore: Passaggio al Bosco
Anno: 2025
Acquisto: https://www.passaggioalbosco.it/shakespeare-genio.../

Henri Suhamy si libera in fretta del santino. Shakespeare è “genio europeo” non per alchimia patriottica ma per rete: fonti, lingue, traduzioni, palcoscenici e riscritture lo attraversano e lo riforgiano di continuo. Il libro ragiona su questa circolazione con una prosa pulita, senza vezzi accademici, e con un principio semplice: mettere il teatro al centro del teatro. La biografia c’è, essenziale, ma serve a spiegare un mestiere più che a nutrire leggende. Il “padre guantaio”, l’ascesa sociale, l’arrivo a Londra, i soldi investiti a Stratford: tasselli concreti. L’autore non si fa distrarre da congetture romanzesche; ricorda ciò che conta per capire la bottega elisabettiana, la macchina scenica, i vincoli e le libertà. E quando spunta la disputa sull’erudizione classica, la smorza in un colpo citando Ben Jonson: «E anche se conoscevi poco latino e ancor meno greco». Non è un declassamento; è il modo per dire che la competenza che conta è quella teatrale, non l’ossessione bibliografica.

L’idea forte è che Shakespeare nasce europeo perché già lavora in una Londra europea. Le trame italiane, le mediazioni francesi, i Plutarco tradotti, le novelle rifuse: un continuum di materiali che l’inglese metabolizza e rilancia. Suhamy evita l’anglocentrismo senza cadere nell’opposto; mostra come la ricezione sul continente sia parte dell’opera, non un après. Le prove arrivano dai media moderni e dai riusi: dalla televisione francese (“Tutto Shakespeare in diciotto trasmissioni”) alle scene liriche («Tutto nel mondo è burla. / L’uom è nato burlone»).

Quando Suhamy entra nelle opere, lo fa con una bussola pratica: come funziona qui il conflitto, come si impasta il registro, dove scatta il passaggio tra verso e prosa. Il teatro sociale emerge senza moralismi: in 𝘊𝘰𝘳𝘪𝘰𝘭𝘢𝘯𝘰 la superbia nobiliare smotta in megalomania, i tribuni non sono liberatori ma strateghi della propria ascesa; nella seconda parte di 𝘌𝘯𝘳𝘪𝘤𝘰 𝘝𝘐 la rivolta di massa diventa un grottesco amministrativo (Jack Cade come sintomo, non come eroe). E in 𝘛𝘶𝘵𝘵𝘰 è 𝘣𝘦𝘯𝘦 𝘲𝘶𝘦𝘭 𝘤𝘩𝘦 𝘧𝘪𝘯𝘪𝘴𝘤𝘦 𝘣𝘦𝘯𝘦 il re di Francia non fa catechismo egualitario: corregge la favola del “sangue”, ricolloca merito e funzione. Sono letture da palcoscenico, non da seminario: l’autore mostra come Shakespeare pieghi i generi senza sbandare, accetti i passaggi comici nelle tragedie e i tratti tragici nelle commedie, e capisca che i pubblici sono plurali (gli “ingegni universitari”, gli artigiani, i cortigiani).

C’è poi un filo che Suhamy tratta meglio di tanti manuali: musica e teatralità come organo, non come arredamento. Non a caso richiama il monito del 𝘔𝘦𝘳𝘤𝘢𝘯𝘵𝘦 𝘥𝘪 𝘝𝘦𝘯𝘦𝘻𝘪𝘢 all’«uomo che non ha musica dentro di sé»: non estetismo, ma misura dell’ascolto necessario al teatro. Shakespeare pensa per ritmi, alterna metro e prosa per segnare classe, ruolo, temperamento, e sa quando spingere l’aria fino a farla coro. Qui l’autore è efficace anche nelle deviazioni “contaminanti”: Beethoven e l’ouverture del 𝘊𝘰𝘳𝘪𝘰𝘭𝘢𝘯𝘰 non scritta per Shakespeare ma non per questo irrilevante; Verdi che chiude con «Tutto nel mondo è burla» e ribadisce quanto il bardo sia materiale vivo per altri linguaggi. L’Europa di Suhamy non è cornice: è laboratorio, dove il testo si fa partitura. Similmente, nelle arti visive, la pittura europea ha metabolizzato Shakespeare per due secoli — da Delacroix (litografie da 𝘈𝘮𝘭𝘦𝘵𝘰 e 𝘔𝘢𝘤𝘣𝘦𝘵𝘩) ai Preraffaelliti (Millais, Rossetti: 𝘖𝘧𝘦𝘭𝘪𝘢), fino alle serie illustrative tra Otto e Novecento — trasformando la scena shakespeariana in immagine e mito.

Il libro dice anche un’altra cosa: Shakespeare non predica. Le sentenze ci sono, ma sono atti drammatici, non sermoni. L’autore fa bene a ricordare il principio che attraversa 𝘔𝘦𝘢𝘴𝘶𝘳𝘦 𝘧𝘰𝘳 𝘔𝘦𝘢𝘴𝘶𝘳𝘦 con tono biblico: «…perché con la misura con cui misurate, sarà misurato a voi in cambio». Non c’è portavoce ufficiale dell’autore, ci sono bocche che parlano in conflitto; l’etica che ne esce non è un decalogo, è una pratica di scena. E qui torna una citazione che Suhamy rilancia con intelligenza, il latino che sta dietro alla formula del mondo-palcoscenico: «quod fere totus mundus exerceat histrionem». Vale la metafora, ma vale anche il limite: il carnevale finisce, la maschera torna in scatola.

Sul piano storiografico il pregio è la pulizia. L’autore ripulisce miti inutili (lo Shakespeare-oracolo, lo Shakespeare-ombra), insiste su stampa e status dell’autore, mette al loro posto i compagni di mestiere e i rivali, tratteggia il sistema di censura senza ridurlo a bavaglio onnipotente. Fa vedere la concretezza dei mestieri, della vita materiale, dell’economia che pulsa sotto i versi: creditori e debitori, investimenti e rendite, ritorni a casa che non sono ritiri spirituali ma scelte di gestione. È la parte che rende il libro utile a chi insegna, a chi traduce, a chi monta.

Se c’è un limite è di progetto, non di mano: quando passa a mappare traduzioni e ricezioni nazionali, la sintesi scivola talvolta nel catalogo. Si capisce perché (la materia è sterminata), ma qualche caso-studio più profondo avrebbe giovato: un’analisi ravvicinata di una stagione francese, un capitolo sul Settecento italiano o sulle letture tedesche ottocentesche. Detto questo, la sintesi resta onesta: non promette l’enciclopedia, offre una mappa leggibile.

Il punto, alla fine, è che Suhamy restituisce Shakespeare alla sua dimensione più vera: non un altare, ma una pratica. L’autore che “scuote la lancia” (shake = scuotere + speare = lancia) non per gesto eroico, ma perché fa attrito con il presente e con i pubblici che incontra. È un libro che si legge bene perché tratta il lettore da adulto: niente formule salvifiche, molta officina. E se deve lasciare un’idea, è questa: la grandezza è un fatto artigianale. Si vede nel modo in cui Shakespeare monta lingue e corpi, governa il ritmo, tiene insieme il proto-capitalismo londinese e l’immaginario mediterraneo, usa il mito come “finzione consapevole” e non come reliquia. La prova sta nel modo in cui il testo sopravvive ai secoli: non perché sia “universale” in astratto, ma perché è capace di farsi e rifarsi in Europa, tra scuole, teatri, radio, cinema e televisione. Qui la tesi del “genio europeo” è una descrizione di fatto. E funziona.

— 𝗠𝗶𝗿𝗼 𝗥𝗲𝗻𝘇𝗮𝗴𝗹𝗶𝗮